Rispetto a Sonnambula il clima estetico e espressivo di Norma appare meno problematico e ambiguo: di fatto Norma (altro libretto di Felice Romani) è un’opera che pone anche meno problemi ai registi che, di volta in volta, possono decidere di ambientare la vicenda della spergiura sacerdotessa druidica in un clima neoclassico, romantico, borghese, futuristico persino… Una simile varietà espressiva è data dalla robusta solidità del soggetto, che riesce a mantenere uno stabile equilibrio strutturale pur non rinunciando a un deciso affondo nella tradizione delle maghe schernite e/o sacerdotesse spergiure, mediando la narrazione con una nuova umanità della sua protagonista. Lo stesso Bellini, del resto, aveva le idee chiare nello scrivere a Giuditta Pasta (creatrice del ruolo) a proposito del soggetto:
Romani lo crede di grande effetto e proprio pel suo carattere enciclopedico, perché tale è quello di Norma. Egli imposterà in modo le situazioni che non avranno alcuna reminiscenza con altri soggetti, e toccherà, e sino cambierà dei caratteri se la necessità lo richiederà per cavarne più effetto.
Il modello principale del libretto di Romani è un dramma francese di Alexander Soumet, Norma, ou l’Infanticide, che unisce svariate suggestioni mitiche e storiche:
- la donna tradita e potenzialmente infanticita (Medea);
- il tema della sacerdotessa spergiura ai propri voti (Vestale di Spontini);
- il clima celtico, che occhieggia alla mitica Valléda di cui anche Chateubriand parla nei suoi Martyrs.
Questo breve elenco di “precedenti” definisce benissimo le motivazioni per cui il soggetto possa definirsi al tempo stesso uguale a nessun altro e “enciclopedico”.
Nota giustamente la studiosa Lidia Bramani (v. Bibliografia a fine pagina):
La densa stratificazione di simboli presenti in Norma segue il doppio canale del mito antico greco-latino e di quello celtico, entrambi filtrati dalla sensibilità romantica dei primi decenni dell’Ottocento. […] Non dimentichiamo che Bellini era appassionato lettore di quell’Ossian tradotto dal Cesarotti che tanto influenzò la nascita del romanticismo italiano. […] Esiste, in Norma, una griglia di situazioni e attegiamenti, attinti sia dal mito antico latino e greco, sia da quello celtico, che disegna un’amplissima panoramica antropologica.
Va anche notato che la Norma di Soumet chiude la tragedia uccidendo i propri due figli per poi suicidarsi, a differenza della Valléda di Chateubriand, che preferisce sacrificare se stessa (al pari della Norma belliniana), mentre non potranno non essere aggiunti al denso sottotesto di richiami presente nel libretto di Felice Romani anche le Silvae di Stazio, le Historiae di Tacito e altri due libretti di Felice Romani: Medea in Corinto (1813, musica di Mayr) e La sacerdotessa d’Irminsul (1817, musica di Pacini). Una regia che scelga di privilegiare l’aspetto neoclassico dell’opera rispetto a quello ossianico, quindi, sarà senz’altro efficace e valida, proprio perché solido e intenso è il soggetto in grado di accogliere una lettura fortemente caratterizzata da uno dei vari elementi alla base del soggetto, ma è innegabile che ad uscirne sacrificato sarà (anche se lievemente, almeno nel migliore dei casi) proprio questo carattere totale e “enciclopedico” pure così connaturato all’opera e alla sua protagonista.
La regia di De Ana
Per questi motivi ritengo che, anche in questo caso (ma lo spettacolo è precedente alla Sonnambula) Hugo De Ana abbia centrato come nessun altro il clima espressivo dell’opera, reso in uno spettacolo di grande bellezza fissato in dvd dalla giapponese La Voce in occasione delle recite in cui debuttò a Tokyo nel 2003 (in Italia l’allestimento è stato visto anche al Teatro Filarmonico di Verona e al Teatro delle Muse di Ancona).
La scenografia è, ancora una volta, fissa: una grande sala neoclassica le cui colonne monumentali si spostano silenziosamente nel suggerire le varie ambientazioni della vicenda. I costumi sono schiettamente napoleonici e immergono il lavoro in un’epoca storica ben precisa, ovvero la Restaurazione. La regia, come già in Sonnambula, non appare innovativa o particolarmente dinamica (molto statica, anzi) ma è evidente la volontà di omaggiare le plastiche ricostruzioni dei dipinti di David, ricostruiti con cura meticolosa nelle numerose scene di massa.
In questa ambientazione neoclassica si inserisce (come nella musica belliniana) la natura misteriosamente preromantica: niente luna nel “Casta Diva”, accompagnato invece da una frusciante e misteriosa pioggia di foglie su Norma e sul coro. È la selva a entrare con forza nel clima neoclassico e a permeare di sé la scena, ricoprendo il pavimento di un tappeto erboso che suggerisce un’arcana corrispondenza espressiva dei protagonisti con il mistero della natura. La scelta dell’illuminazione (in cui vengono spesso privilegiate drammatiche luci di taglio) accentua i contrasti e impedisce alla scena di apparire come eccessivamente pesante o statica.
La luna sarà presente nel II Atto, durante l’aria di Oroveso “Ah, del Tebro al giogo indegno”, ma sarà una luna distante e lontana, che avvolge in un’aura di mistero la sala maestosa e ne illumina le alte finestre. Oroveso e i soldati, vestiti con abiti napoleonici, diventano allora la perfetta traduzione visivadi quel clima sospeso tra un neoclassicismo ancora pieno di fulgore e un clima ossianico di mistero e magia.
Lo stampo neoclassico dell’allestimento è poi temperato da alcuni raffinati richiami ai modelli letterari e mitici della vicenda: in Norma c’è molto di Medea, la maga infanticida, e anche se Norma è umana e non divina (e, soprattutto, non uccide i propri figli) il richiamo al mito di Medea nel momento in cui questo è più presente (ovvero dopo la scoperta del tradimento del proprio compagnio) viene reso con l’evocazione di misteriose potenze oscure da un braciere durante la furibonda invettiva che chiude il Finale I. La sacerdotessa spergiura e il suo amante, infine, non ascendono il rogo che li attende fuori scena, ma muoiono sul palcoscenico, trafitti dalle lance dei soldati (gli stessi che, agitando furiosi le bandiere durante il coro “Guerra, guerra”, sembravano occhieggiare al significato che avrebbe assunto quel coro negli anni più roventi del Risorgimento) attorno al braciere sacro del tempio.
Un difetto dell’allestimento può apparire la scarsa evidenza che viene data, almeno a livello visivo, allo scontro di culture che pure è un’aspetto importante del plot drammatico: Pollione e Norma appartengono a tradizioni e riti sostanzialmente diversi e sarà proprio questa profonda incomunicabilità a condurli a morte ma questo aspetto, nello spettacolo di De Ana, non emerge in modo immediato, dato che il regista argentino, scegliendo di concentrarsi sulla potenza visiva di immagini pittoriche di grande bellezza, preferisce creare una collezione di tableaux vivants che colgono con grande efficacia l’unione degli stili e dell”enciclopedico” clima culturale (sospeso tra passato e futuro) del lavoro. La scarsa evidenza che assume lo scontro di culture della vicenda, in compenso, fa emergere la dimensione quasi borghese e privata che viene accentuata, nell’opera, dalla scelta di non coinvolgere il coro nel Finale I: il dramma che si consuma sul palco è, di fatto, un dramma da “lui, lei, l’altra” e non appare certo casuale che Bellini e Romani abbiano deciso di cassare l’originario finale di Soumet, che proiettava in un sanguinoso scontro tra romani e celti il dissidio privato dei due protagonisti. La scelta di De Ana, quindi, appare condivisibile nel privilegiare la dimensione umana e “borghese” della vicenda, rendendo meno dolorosa la perdita di una traduzione visiva dello scontro dei due popoli.
Nel complesso un dvd da collezionare e da guardare soprattutto per l’estrema bellezza dell’allestimento, anche se l’esecuzione musicale appare come tutt’altro che disprezzabile: è eccellente soprattutto la direzione di Bruno Campanella, che lo conferma come una delle migliori bacchette che il repertorio del primo Ottocento possa sperare grazie alle sonorità sempre calibrate e a una scelta di tempi azzeccatissima. Nel cast Fiorenza Cedolins è una Norma non priva di difetti (si senta il finale di “Casta Diva”) ma intensa e coinvolgente, notevole per impeto e immedesimazione, al pari del compianto Vincenzo La Scola, sulla carta non del tutto adatto al personaggio di Pollione, ma comunque artista onorevole. Peccato che per procurarsi la registrazione ci si debba rivolgere al mercato giapponese, che (a quanto ne so) non ha mai importato in Europa questa interessante edizione.
Bibliografia utilizzata
- Bruno Gallotta – Invito all’ascolto di Bellini, 1997, Milano, Mursia
- Lidia Bramani – Amore e fato in Norma, in: Norma, Macerata, Sferisterio, 14 luglio 2001
- Giovanni Carli Ballola – Di la’ della tragedia, in: Norma, Ancona, Teatro delle Muse, 1 dicembre 2004
(2 – Fine)
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#1 di Juegos Online il 19 dicembre 2012 - 10:34
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