Carlo Pedrotti, chi era costui? Il compositore veronese (nato nel 1817 e morto suicida, sempre a Verona, nel 1893) oggi è un nome quasi ignoto ma fino al secondo dopoguerra non era infrequente veder spuntare il suo nome nelle sale da concerto, legato alla frizzante Sinfonia dell’opera buffa Tutti in Maschera. L’opera buffa in questione, riconosciuta come il capolavoro dell’artista, andò in scena a Verona nel 1856 e conobbe anni di grande popolarità, trovando spazio e repliche anche fuori dall’Italia, sempre accolta con favore e divertimento dal pubblico ma, per molti anni, la sua conoscenza si era limitata a una segnalazione nei libri di storia della musica. Nel 2007 l’opera di Pedrotti venne allestita a Savona in coproduzione con altri teatri italiani e con il Festival irlandese di Wexford e la bolognese Bongiovanni ha pubblicato un dvd di quelle recite, permettendo quindi a ognuno di poter accostarsi alla musica del compositore veronese e agevolando una conoscenza di prima mano dell’opera.
Un’opera che è strana e affascinante per vari motivi: innanzitutto è un’opera buffa nata in un momento molto particolare, ovvero in quegli anni che di solito vengono considerati di pausa tra l’ultima opera buffa della tradizione italiana (il donizettiano Don Pasquale del 1843) e il verdiano Falstaff di fine secolo; alla prova dell’ascolto, Tutti in Maschera si rivela essere prodotto indubbiamente minore, ma non per questo privo di fascino e di meriti. L’opera, inoltre, vive di un miscuglio di stili vocali eterogeneo e particolare: una sorta di rossinismo donizettiano impastato con echi melodici la cui robustezza risente inevitabilmente del passaggio delle opere verdiane ma all’insegna di una brillantezza di scrittura e di composizione assai personale, già presaga della futura stagione operettistica che trionferà soprattutto nei primi anni del XX secolo.
Carlo Pedrotti sarà comunque maggiormente ricordato non tanto come compositore, ma soprattutto per la sua meritoria attività di direttore d’orchestra a Torino (oltre a imprimere un bello slancio alla diffusione e al rilancio nella penisola della musica sinfonica sarà anche il direttore della “prima” italiana di Carmen) anche se l’ascolto della sua opera più celebre consente di formarsi un giudizio personale e non necessariamente negativo, data l’euforia della vicenda e la comunicativa dell’inventiva musicale.
La trama (in breve)
A Venezia, durante il carnevale. La nuova opera di Don Gregorio è stata fischiata alla Fenice ma, secondo il compositore, la colpa sarebbe stata della pessima esecuzione, “capitanata” dalla primadonna Vittoria che non sarebbe stata in forma a causa di discussioni con il suo amato, il cavaliere Emilio. Questi non vede di buon occhio la carriera di Vittoria e, anzi, la vorrebbe tutta per sé e lontano dalle scene. In precedenza Emilio aveva amato un’altra cantante, Dorotea, attuale moglie di Gregorio, che viene scoperta da Vittoria a casa di Emilio. In realtà Dorotea voleva solo riavere indietro delle vecchie lettere, ma Vittoria pensa a un tradimento: per vendetta, decide di accettare l’offerta del turco Abdalà, venuto in Italia per formare una compagnia da far esibire a Damasco. Il turco si invaghisce di Vittoria che invita a un ballo mascherato dove, però, si presentano vestiti da turchi anche Gregorio, sospettoso di un tradimento di Dorotea, e Emilio oltre, naturalmente, alla stessa Dorotea vestita come Vittoria. I prevedibili equivoci, tuttavia, si risolvono con un lieto fine generale: la compagnia partirà per Damasco, ma senza Vittoria, finalmente convinta a rinunciare alle scene per il suo Emilio.
L’opera
Il soggetto è assai liberamente tratto dalla commedia goldoniana L’impresario delle Smirne, da cui, in realtà, proviene essenzialmente solo lo spunto che da l’avvio alla trama, ovvero la presenza di un impresario orientale (turco, nel nostro caso) seriamente intenzionato a scritturare una compagnia di artisti per spettacoli da tenersi a Damasco. Per il resto il librettista Marco Marcelliano Marcello ammette di aver volutamente preso le distanze dall’intrigo originale per non battere lo stesso terreno (la satira delle convenzioni e del mondo operistico) già battuto da una serie di opere che nelle immortali Convenienze e Incovenienze Teatrali donizettiane avevano trovato il loro capolavoro. Piuttosto che muoversi ancora all’interno di una stantia linea satirica si sceglie, quindi, di raccontare una vicenda brillante e teatralmente vivace, senza approfondire troppo la psicologia dei personaggi e badando soprattutto a un intreccio in grado di tenere accesa l’attenzione del pubblico nella sapiente alternanza di momenti comici e sentimentali. Palpabile
anche l’influenza del rossiniano Turco in Italia, soprattutto nella presenza del poeta Martello e nella scena delle doppie e triple maschere del III Atto. Rispetto a Prosdocimo, tuttavia, Martello ha molta meno importanza e lo stesso equivoco delle maschere sembra più l’occasione per permettere ai tre uomini di esibirsi in uno scatenatissimo terzetto (“Quivi un turco” che, peraltro, è anche tra le pagine migliori dell’opera) che una scena giustificata dall’evoluzione teatrale della vicenda. Anche l’entrata di Abdalà appare simile a quella di Selim nel testo, dato che entrambi lodano le bellezze dell’Italia, ma le affinità si fermano a questi aspetti più superficiali: Abdalà non ha lo stesso carisma di Selim e la presenza di Martello appare ininfluente ai fini della trama rispetto all’onnipresente Prosdocimo del Turco, lui si vero deus ex machina della vicenda. Il libretto, in ogni caso, appare costruito con bella brillantezza teatrale, in grado di alternare con perizia sezioni dinamiche ad altre maggiormente statiche o riflessive: i personaggi sono sbalzati con sufficiente accuratezza e si risce in parte a evitare il rischio della macchietta, benché i caratteri siano tendenzialmente superficiali. Quello che può apparire come un difetto agli occhi contemporanei è il moralismo nemmen troppo celato del Finale: sebbene i tre personaggi principali maschili affermino che “Quelle donne miei signori / ci han menato per il naso” appare evidente il maschilismo di fondo nella repentina decisione di Vittoria di rinunciare alla carriera di artista in favore di quella di moglie e madre (“casalinga disperata” aggiungerei). Emilio non ci va troppo per il sottile: “Non è sogno il mio? / Lo splendor delle scene / tu lasci alfin?” (come se anziché sulle scene Vittoria lavorasse nei viali), un’affermazione fin troppo forte, cui lei però risponde estaticamente sognando il futuro insieme: “Con te trascorrere vedrò la vita / com’onda placida per via fiorita. / Il Ciel sereno sempre vedrò / se sul tuo seno sempre starò. […] Ah, l’amore in paradiso / questa terra può cangiar!”.
La musica di Pedrotti si sposa al libretto con brillantezza e con un bell’impeto melodico. Già la frizzante Sinfonia è un assaggio di quello che sarà il clima musicale della festa in maschera attorno a cui sarà costruito l’intero III Atto:
Moduli espressivi dell’opera buffa settecentesca e di inizio ‘800 (recitativi secchi compresi) si alternano a un clima musicale che risente del passaggio verdiano, in un miscuglio stilistico eterogeneo ma non privo di suggestioni di cui la prima metà del I Atto (ambientata in un caffé) è un esempio eccellente. Il coro di introduzione, in cui si commenta con freschezza il fiasco dell’opera di Don Gregorio avvenuto alla Fenice la sera precedente, è nel più schietto stile buffo, seguito dal languido sentimentalismo tenorile della Romanza del Cavaliere Emilio “Perché non posso al fascino”, espressa su di una melodia e su un’orchestrazione che non stonerebbero in un’opera del primo Verdi, cui segue la cavatina di Don Gregorio che, da vero basso buffo, parla il linguaggio dei Bartolo e Dulcamara. Basterebbe questa insolita sequenza di stili, melodie e ambienti musicali così diversificati ma al tempo stesso così sapientemente fluidi a rendere conto della particolare originalità di quest’opera. Non manca, come è ovvio, una sapida parodia dell’opera seria espressa nell’aria d’entrata di Vittoria “Forse qui, fra queste mura”, dal tono patetico nella sezione lenta (contrappuntata dagli interventi di Dorotea in una sorta di mini duettino) e più brillante nella cabaletta “Ah, se potessi illudermi”. L’aspetto più evidente che emerge dall’ascolto dell’opera è la grande attenzione che Pedrotti mostra di avere nei confronti degli spunti più comici rispetto alla sbrigatività con cui vengono risolti quelli sentimentali, che sono tutti assai brevi e rapidi (romanza di Emilio e i due duettini Emilio – Vittoria al I e III Atto) e, evidentemente, meno interessanti per il compositore. Spicca la bella caratterizzazione offerta alla seconda donna Dorotea, il cui duetto con Gregorio al III Atto è una pagina di arguta malizia ma non sfigura nemmeno l’aria “O pudiponda vergine” del II Atto, in cui la forma strofica permette al mezzosoprano di esibire un elenco di tattiche di seduzione assai variegato. Più dimessa la caratterizzazione di Abdalà di cui, a parte il fatuo Valzer di entrata “Viva l’Italia” si segnala la calda cantabilità di “Vedrai la terra magica” nel Duetto con Vittoria. La pagina migliore dell’opera, in ogni caso, mi pare il già citato Terzetto maschile: in questo caso, come nella Sinfonia, si sente un vigore ritmico e danzante già presago della futura stagione operettistica, unito alla solare cantabilità di frasi (“Di tre turchi la baruffa”) nella cui solida robustezza è impossibile non trovare un’eco della solidità verdiana allora assai in voga.
Ascoltare Tutti in Maschera
Grazie alla preziosa pubblicazione della Bongiovanni è possibile rendersi conto dei pregi e dei difetti della partitura, anche perché l’esecuzione proposta è nel complesso apprezzabile, nonostante l’interprete migliore della compagnia (Paolo Bordogna) sia confinato nel blando ruolo di Abdalà e lo spettacolo di Rosetta Cucchi soffra un po’ delle inevitabili limitazioni di budget. I pregi sono riassumibili nella felicità dell’invenzione melodica, nella scatenata verve teatrale e nell’indiavolata gestione ritmica che, spesso, anticipa le scanzonate atmosfere danzanti che caratterizzeranno l’operetta di fine secolo, pur all’interno del curioso mélange di stili di cui si è detto.
I punti deboli dell’opera sono nella sostanziale superficialità con cui vengono caratterizzati i personaggi principali che, pur non essendo macchiette, nemmeno ci appaiono indimenticabili per personalità e carattere, e in certa convenzionalità di scrittura, che rivela il solido mestiere di Pedrotti ma che non si caratterizza per una spiccata e riconoscbile cifra stilistica: con questi elementi è facile capire perché l’opera conobbe un franco successo, tale da portarla in cartellone anche in teatri europei, almeno fino alla fine del XIX secolo ma, al tempo stesso, appaiono chiare anche le ragioni della sua progressiva scomparsa dal repertorio, dato che al lavoro sembrano mancare quell’originalità e quella riconosibilità necessarie per resistere all’urto del tempo.
Curiosità
Sembra difficile collegare una trama così brillante e, in fondo, innocua nel suo sottotesto moraleggiante alle rivendicazioni patriottiche, eppure la storia riesce sempre a sorprenderci: programmata al Teatro Sociale di Varese nel 1858, difatti, l’opera suscitò l’entusiasmo del pubblico presente che, dopo l’entrata di Abdalà “Viva l’Italia”, proruppe in esclamazioni patriottiche e antiaustriache tali che la polizia dovette impedire le successive repliche.
Le foto che accompagnano l’articolo sono di Lucia T. Sepulveda.
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