Rosa dei Venti – 1 – Il Pirata di Vincenzo Bellini

Una serie di opere unite da un comune denominatore: la presenza del mare, come via di fuga, ma anche come espressione dell’anelito all’infinito che è tratto caratterizzante di buona parte della poetica romantica. Eroi maledetti, pirati e corsari ma anche terre lontane ed esotiche sono al centro delle quattro opere di cui si compone il ciclo Rosa dei Venti. Clicca sul banner qui sopra o nella colonna per leggere tutti gli articoli del ciclo.

Non sono, in fondo, molte le opere che, al pari del belliniano Pirata, possono vantare lo status di testo mitico così come di prima opera, sotto molti aspetti, autenticamente romantica nella letteratura musicale italiana e, al tempo stesso, melodramma in grado di creare un vero e proprio archetipo, quello dell’ eroe-tenore bello di sventura e destinato, ovviamente, a fine tragica. Non che il soprano, ovviamente del tenore amante, abbia una fine migliore, dato che le spetta una lunga e composita scena di pazzia che si rivela come la prima di una lunga serie di follie romantiche che attraverseranno tutto il XIX secolo. Il destino tragico di Imogene e di Gualtiero (questi i nomi dei protagonisti del Pirata) si esprime in un’opera e in un’atmosfera che, sotto molti punti di vista, lo stesso Bellini non ricercherà più: come negare il clima romantico dei Capuleti ed i Montecchi? Eppure la presenza di un contralto “en travesti” nei panni dell’eroe amoroso obbedisce a canoni diversi da quelli del realismo dei sentimenti tipico dell’idea romantica. Come negare le suggestioni dei Puritani, l’estremo capolavoro scritto per Parigi? Eppure il dichiarato modello belliniano di molte scene, tra cui quella centrale della pazzia di Elvira, fu la Nina, o sia la pazza per amore di Giovanni Paisiello, senza contare il romanticismo alquanto sui generis della Norma. Questo non significa che, dopo l’exploit del Pirata, Bellini si richiuda in uno sguardo all’indietro rinunciando alla conquista di un mondo di passioni che, al contrario, esplorerà Donizetti: Bellini è un romantico sotto molteplici punti di vista, ma un romantico alla maniera di Leopardi (cui tante – troppe? – volte è stato paragonato) e capirà, dopo l’exploit di questo Pirata, che non sarebbe stata la strada delle passioni esacerbate quella in grado di esprimere al meglio la sua sensibilità (lo dimostra La Straniera, peraltro opera assai affascinante, ma certamente meno riuscita). Il Pirata, per certi versi, si pone dunque come una sorta di unicum alquanto peculiare all’interno della produzione del catanese.

La Trama (in breve)

Sicilia, XIII secolo. Ernesto di Caldora, innamorato di Imogene e seguace degli Angiò, sconfigge Gualtiero, seguace di Manfredi, mettendolo al bando. Con un ricatto sposa la donna mentre Gualtiero diviene capo dei pirati. Invano quest’ultimo, ritornato a Caldora, tenta di convincere Imogene a fuggire con lui: dopo aver ucciso Ernesto in duello sarà condannato a morte, mentre la donna impazzirà. Da notare che la località in cui si svolge la vicenda, Caldora, non esiste e potrebbe corrispondere a Calderà (località di Barcellona Pozzo di Gotto in provincia di Messina), peraltro posta proprio tra Palermo e Messina, ovvero il tragitto che avrebbero dovuto compiere i pirati prima del naufragio con cui l’opera ha inizio.

Un successo clamoroso… e un “nuovo” tenore

Una delle definizioni più gustose di Felice Romani (librettista del Pirata e collaboratore prediletto di Vincenzo Bellini) è quella di Fulvio Stefano Lo Presti:

Non famelico verseggiatore bensì letterato colto e “aristocratico”, predicava “bene” ma razzolava “male”, professandosi antiromantico e combattendo da critico quel materiale romantico che, pur sotto forme classicheggianti, introduceva egli stesso nei propri melodrammi. Furono questi i frutti più cospicui del suo lascito, non gli atteggiamenti critici, talora contraddittori e fuorvianti […].

Un romantico antiromantico, quindi, e non c’è da stupirsene leggendo il convulso libretto con il quale Vincenzo Bellini, al suo debutto a Milano dopo gli anni dell’apprendistato napoletano, colse un trionfo epocale (Teatro alla Scala, 27 ottobre 1827): il soggetto era stato infatti tratto dal Bertram, ou le Château de St. Aldobrand, mélodrame adattato dalla traduzione francese (a cura di M. le Baron Isidore-Justin-Severin Taylor e M. Charles-Emmanuel Nordier) della tragedia Bertram, or the Castle of St. Aldobran (1816) di Charles Robert Maturin, lo stesso autore del goticissimo romanzo Melmoth, the Wanderer (peraltro ancora oggi libro di godibile lettura). Non era solo l’ambientazione esotica in terre lontane e pittoresche (tale era vista la Sicilia, all’epoca) a risultare estremamente interessante ma la presenza di un protagonista corsaro, disperato e maledetto, alle prese con un destino avverso e una felicità impossibile da realizzare. Bellini era talmente consapevole delle novità fornite dal soggetto che, tiranneggiando il suo primo Gualtiero (che era il grande tenore bergamasco Giovanni Battista Rubini), inventò praticamente il modello del tenore romantico. È interessante notare come, avendo ormai Rossini abbandonato l’Italia, molti tenori e compositori persistessero nella composizione e nell’esecuzione di pagine di folle virtuosismo che, molto spesso, erano comunque prive di quell’ambiguità che è tratto caratterizzante della coloratura rossiniana: un esempio abbastanza eloquente di questa mancata comprensione delle capacità del tenore nella musica romantica può essere visto nella donizettiana Elvida, mediocre atto unico d’occasione composto per Napoli l’anno prima del Pirata. La musica destinata a Rubini, che ne fu il primo interprete, è vacuamente virtuosistica, di enorme difficoltà ma espressività scarsina e non è un caso se, componendo in quegli anni per proprio conto una Gabriella di Vergy che denunciava l’insofferenza donizettiana nei confronti delle convenzioni ancora in auge, il compositore bergamasco non giudicò idoneo affidare al tenore il ruolo dell’amoroso preferendogli un contralto “en travesti”. Lo stesso Bellini, nel Bianca e Gernando (scritta ancora per Rubini), non aveva affatto esplorato le potenzialità del suo interprete con la stessa intensità del Pirata. Fatto sta che le lunghe ed estenuanti prove cui Bellini sottopose il suo interprete sortirono l’effetto sperato: Rubini piegò la sua tecnica eccellente all’espressività richiesta, evidente anche nella scrittura belliniana, che non teme di mandare a monte la regolarità della cavatina d’entrata per evidenziare l’espressività di versi quali “Come un angelo celeste / di virtude consiglier” o “La mia vita omai dipende / da Imogene, dall’amor” contrapposti alla descrizione del “furor delle tempeste” e delle “stragi del pirata”. Questo dualismo, peraltro, esprime perfettamente la doppia personalità del personaggio, diviso byroniamente tra l’ansia di (auto)distruzione del masnadiero maledetto e la malinconia disperata dell’innamorato infelice.

Peraltro non si può negare che nella successiva cabaletta il tenore non abbia modo di giocare le carte del virtuosismo e dell’ascesa al sopracuto, anche se ancora una volta Bellini le piega a un’espressività dolente e malinconica che diventerà un po’ il suo marchio di fabbrica. Non a caso Bruno Gallotto, nel suo Bellini, scrive che “nel Pirata sentimento e passione pervadono l’intero dramma in una misura sino ad allora sconosciuta”.

La grande aria finale di Gualtiero, infine, si pone come la summa di queste suggestioni, unendo le suggestioni della sconfitta dell’eroe (il quale immagina Imogene “pietosa a sera / sul mio sasso a lagrimar”) a una linea melodica “lunga lunga” densa di rimpianto. Non è difficile immaginare che questa “nuova” espressività possa aver colpito profondamente il pubblico dell’epoca, che decretò all’opera un trionfo strepitoso: senza esagerare si può dire che Bellini segnò, con il suo Pirata, un vero spartiacque nella storia dell’opera italiana dell’Ottocento.

Se il tenore ha il suo bel daffare per rendere al meglio le richieste del compositore non va certo meglio alla primadonna, dato che la parte di Imogene appare ampia e variegata, destinata al talento del grande soprano francese Henriette Méric-Lalande. A lei Bellini destinò due ampie arie solistiche, in grado di ritrarla vaneggiante e disperata, con la mente ondeggiante fin dalla sua prima, composita, scena d’entrata. Il mare da cui proviene Gualtiero (e su cui lui tenterà di convincerla a scappare in “Vieni, cerchiam pei mari”) è descritto nel sogno della donna in un’atmosfera da incubo: una “deserta, ignota riva” in cui riecheggiano lamenti e pianti e in cui l’immagine stessa della natura esprime il tormento dell’animo della protagonista. Il luogo comune vorrebbe che la presenza, nell’opera del debutto milanese, del mare della “sua” Sicilia avesse ispirato profondamente il giovane e, all’epoca, praticamente sconosciuto compositore: sono leggende romantiche, ovviamente, fiorite dopo il pittoresco successo del debutto, ma non è nemmeno peregrino ipotizzare che l’avventurosa prima traversata marina con cui Bellini lasciò la Sicilia possa aver lasciato un influsso nella definizione di alcune atmosfere dell’opera.

Con la grande scena di follia finale si inaugura il filone delle pazze per amore con fine tragica che tanta fortuna avrà nel melodramma del XIX secolo. Se il cantabile si caratterizza per lo strepitoso afflato melodico denso di scuro cupio dissolvi è pure notevole la cabaletta, in cui il madrigalismo descrittivo che comporta la brusca discesa al grave delle “tenebre oscure” evita il rischio della banalità per assumere una profonda valenza espressiva.

È peraltro curioso notare che la furiosa cabaletta “Oh sole! Ti vela” in realtà non conclude l’opera: Felice Romani inserì nel libretto un’ultima scena in cui viene mostrata una breve battaglia dei pirati per liberare Gualtiero e il suicidio di quest’ultimo (la didascalia prescrive “si precipita dal ponte”) nell’orrore di tutti i presenti. Per lungo tempo si è creduto che questa scena non fosse mai stata musicata da Bellini (anche Francesco Pastura, nella sua biografia belliniana, è di quest’opinione) ma, in realtà, la musica esiste e, anche se non si tratta di un passaggio indimenticabile, non è un momento privo di efficacia teatrale, tanto che alcune riprese moderne dell’opera hanno scelto di reintegrarla nell’esecuzione causando, si presume, l’ira funesta delle primedonne scritturate per l’occasione.

La “rivoluzione” del Pirata, tuttavia, non si limita ai “nuovi” caratteri dei protagonisti (leggermente sottoimpiegato, rispetto ai futuri standard belliniani, appare il baritono, cui è affidato il personaggio di Ernesto, anche se il primo interprete fu un giovane Antonio Tamburini) ma investe anche la struttura della partitura. Non solo in alcune arie (come la già citata cavatina di Gualtiero) si rinuncia a una regolarità di forma a vantaggio dell’espressività ma una sempre maggiore importanza acquistano le scene di massa. Il coro è impegnatissimo, partecipando non solo ai canonici momenti di apertura e chiusura d’atto, ma intervenendo anche in tutte le cinque arie solistiche e, di fatto, acquistando un’importanza che lo rende un vero personaggio dell’azione (si ascolti ad esempio la potente Introduzione con il naufragio dei pirati sulle coste di Caldora). Da qui a parlare di una funzione corale pari a quella della tragedia greca, come a volte si fa, ce ne corre ma è innegabile che pescatori, cavalieri e damigelle svolgano, nel Pirata, ben più che una funzione puramente decorativa. Un altro aspetto notevole dell’opera è la raffinatezza dei recitativi, che non si limitano ad essere semplici collegamenti tra i numeri musicali, ma si stemperano spesso in ariosi ad alto tasso di espressività che, a loro volta, trasmigrano senza soluzione di continuità nei numeri veri e propri. Di altissima emozione è, ad esempio, il breve arioso di Imogene “Ma qual s’ama un uom sepolto”, che introduce il melanconico tempo lento nel duetto tra Ernesto e la donna, oltre ovviamente al grande recitativo “Oh, s’io potessi dissipar le nubi” che, preceduto da un’ampia e dolente introduzione orchestrale, introduce la scena di pazzia della protagonista.
Il Pirata è un’opera di sorprendente compattezza ed espressività, nonostante non manchino reminiscenze, soprattutto dalla giovanile (e semiseria) Adelson e Salvini (ad esempio nel tema della stretta del Finale I o nella cabaletta di Gualtiero “Per te di vane lagrime”) che sono, tuttavia, inserite in un contesto di estrema coerenza. Le difficoltà della scrittura (soprattutto per quanto riguarda quella tenorile, priva di note estreme come il fa dei Puritani ma, in compenso, dalla tessitura decisamente più alta) sono tuttavia una pesante ipoteca a una maggiore diffusione dell’opera sui nostri palcoscenici, dato che risulta molto difficile trovare un tenore disposto a studiare un ruolo così pesante – anche se ricco di soddisfazioni – come quello dell’eroe maledetto e condannato alla sconfitta che da il titolo al lavoro.

Ascoltare Il Pirata

La discografia del Pirata non è sterminata ma nemmeno scarna come le difficoltà dell’opera farebbero supporre. Irrinunciabili, per tutti gli appassionati belliniani, sono le due edizioni EMI che trovano la loto ragion d’essere nella presenza di due primedonne di rango come Maria Callas (un live americano del 1959) e Montserrat Caballé (un’ottima registrazione in studio). Mentre nel primo caso si può tranquillamente dire che la Callas è sola in mezzo al deserto (Pier Miranda Ferraro, pur artista solido e di ottima professionalità è tuttavia lontano dalle esigenze di un ruolo monstre come quello di Gualtiero) la registrazione in studio del 1970, diretta da Gianandrea Gavazzeni, paga lo scotto di proporre come Gualtiero Bernabé Martì, allora marito della Superba, che è un protagonista decisamente problematico (il resto del cast è, però, buono). Sono poi molte le registrazioni live e pirata dell’opera, tra cui mi limito a segnalare un live jesino del 1982 con un ottimo Rockwell Blake a fianco di Maria Dragoni, l’esecuzione integrale (a suo tempo videotrasmessa dalla Rai) dell’edizione di Martina Franca con un eccellente Giuseppe Morino e una brava Lucia Aliberti, la temperamentosa performance di Aprile Millo alla Carnegie Hall (a fianco di un Morino stavolta in pessima serata) nonché le belle recite anconetane del 2007 con Mariella Devia e José Bros, reperibili in rete con un po’ di fortuna. Appare interessante il broadcast radiofonico delle recite olandesi del 2003 con Nelly Miricioiu e Stefano Secco per la presenza della scena finale che segue la cabaletta di Imogene “Oh sole! Ti vela” ma, in questa sede, andrà anche segnalato il contributo alla diffusione dell’opera offerto da Salvatore Fisichella, splendido Gualtiero in molte registrazioni pirata. Se l’approccio al ruolo della protagonista da parte di una diva del calibro di Renée Fleming si è risolto in un clamoroso flop c’è invece da aspettarsi un’ottima resa dall’imminente registrazione Opera Rara del lavoro, in cui sarà impegnato ancora José Bros a fianco dell’Imogene di Carmen Giannattasio. Edit del 12 maggio 2012 – È appena uscita l’edizione Opera Rara del Pirata e dall’elenco delle tracce si pone come la prima incisione assolutamente integrale dell’opera, presentando non solo tutte le riprese dei da capo, ma anche la prima registrazione in studio della breve scena finale con il suicidio di Gualtiero dopo la vigorosa cabaletta di Imogene.

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Le foto che accompagnano l’articolo sono di Lucia T. Sepulveda.

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  1. #1 di amfortas il 1 ottobre 2011 - 17:42

    Gabriele ciao, ti consiglio, se già non lo conosci, il bellissimo Mare immenso ci separa, di Salvatore Mazzarella. Una lettura istruttiva e piacevole, scritta in modo rigoroso ma allo stesso tempo piacevolmente divulgativo. Lo trovi con facilità in Rete (IBS, Amazon). Ciaps.

  2. #2 di Gabriele Cesaretti il 1 ottobre 2011 - 19:03

    Ciao! No, non lo conosco, quindi grazie per la segnalazione! Me lo procurerò sicuramente: metto anche il link dal sito della Sellerio se dovesse essere utile per qualcuno: http://www.sellerio.it/it/catalogo/Mare-Immenso-Ci-Separa/Mazzarella/1679 Grazie ancora e Ciao! 😉

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