Una serie di opere unite da un comune denominatore: la presenza del mare, come via di fuga, ma anche come espressione dell’anelito all’infinito che è tratto caratterizzante di buona parte della poetica romantica. Eroi maledetti, pirati e corsari ma anche terre lontane ed esotiche sono al centro delle quattro opere di cui si compone il ciclo Rosa dei Venti. Clicca sul banner qui sopra o nella colonna per leggere tutti gli articoli del ciclo.
L’opera semiseria è un genere strano e affascinante: “disorientante” la definì Jeremy Commons e, in effetti, non si può che rimanere spesso disorientati dalla strana disinvoltura con cui, in melodrammi come Linda di Chamounix di Donizetti o La gazza ladra di Rossini (sicuramente tra le opere semiserie più celebri) elementi seri e drammatici convivano tranquillamente accanto a spunti comici e brillanti. Derivata dal genere francese dell’opéra-comique, l’opera semiseria italiana rappresentò sotto molti punti di vista l’attenzione e l’interesse nei confronti di una rappresentazione improntata a maggiore realismo nei personaggi (spesso umili e/o comunque non nobili) e nei sentimenti, sviluppando quello stile, appunto, “sentimentale”, ma a lieto fine, che portò ad esempio al successo un’opera come la Nina, o sia la pazza per amore di Paisiello. L’opera seria, infatti, non poteva accogliere la natura realistica e quotidiana di personaggi che apparivano decisamente lontani dagli eroi tragici e aulici di cui si nutriva: l’obiettivo, ambizioso, dell’opera semiseria era dunque quello di rappresentare una sorta di via mediana tra l’opera seria e l’opera buffa, cercando di suscitare emozione e commozione nel pubblico educandolo, al tempo stesso, ai sentimenti più puri e nobili. Per queste ragioni al centro delle opere semiserie c’erano spesso donne sedotte e abbandonate (ma destinate a un lieto fine riparatore) e, quando si toccavano alcuni problemi sociali potenzialmente scottanti, vi era sempre l’attenzione a che questi servissero a scuotere le emozioni del pubblico in vicende ad alto tasso di moralismo: decisamente improbabile l’immagine di librettisti e compositori talmente attenti alla lotta di classe da comporre opere di denuncia.
Il realismo dell’ambientazione e degli avvenimenti (per quanto spessissimo presente) non è però affatto una conditio sine qua non necessaria alla creazione di un’opera semiseria: ne è la dimostrazione lampante uno dei più strani e affascinanti lavori di Gaetano Donizetti, Il furioso all’isola di San Domingo, in cui la tipica situazione drammaturgica che presenta un problema di ordine morale (tradimento del partner, seguito da perdono e riconciliazione) viene ambientata nell’esotica e geograficamente lontana isola di Santo Domingo, una sorta di “non luogo” (circondato dal mare) in grado di mettere sullo stesso piano emozionale i tre protagonisti della vicenda.
La trama
A Santo Domingo vive Cardenio, divenuto pazzo (“furioso”) a causa del tradimento della sua amata Eleonora. Cardenio è approdato nell’isola per allontanarsi da lei e tentare di dimenticarla, ma invano, dato che il ricordo del perduto amore lo tormenta continuamente: il povero servo Kaidamà è spesso costretto a sopportare i suoi deliri che frequentemente sfociano in percosse e intense crisi emotive. Sull’isola, tuttavia, arrivano anche Fernando, fratello minore di Cardenio, e la stessa Eleonora, pentita e straziata dai rimorsi. Cardenio, lentamente, ritrova la ragione e riesce a perdonare Eleonora, chiudendo l’opera nel giubilo generale.
Che l’assenza di una vera politica meritocratica sia un problema dei nostri giorni è tutto da dimostrare: il povero Donizetti, che nel 1822 aveva composto per l’impresario romano Giovanni Paterni la Zoraida di Granata dietro un compenso di 500 scudi, ne ricevette appena 570 per la composizione del furioso all’isola di San Domingo, avvenuta nel 1832, quindi dieci anni e circa trenta opere dopo la Zoraida… da non credere! Per la nuova opera, che seguiva il grande successo milanese dell’elisir d’amore, Donizetti e il suo librettista Jacopo Ferretti si orientarono sull’episodio di Cardenio e Lucinda, contenuto nel I Tomo del Don Quixote di Miguel de Cervantes Saavedra, che, in ogni caso, era già stato alla base della commedia Il furioso nell’isola di San Domingo di autore anonimo, assai in voga dal 1820 sui palcoscenici italiani. Le prime fasi della collaborazione tra Donizetti e Ferretti avvennero a distanza, dato che il compositore si trovava a Napoli per la Sancia di Castiglia, e le lettere conservate ci permettono di farci un’idea dell’attenzione che poneva Donizetti nella gestione dei soggetti. In una lettera del 9 agosto 1832, elencando tagli e modifiche con la sua consueta ironia, si pone il problema degli effetti scenici: “Quella tempesta nella stretta mi secca, chè, tuonando, impedisce audire. Se debbo dire le parole senza tuono, allora si, ma dirò forse due terzine sole.” Qualche giorno dopo, il 18 agosto, sembra quasi di legger Verdi: “Sul second’atto ti sia d’eterna regola la brevità… per pietà… la brevità…”, un concetto ribadito in un’altra missiva ancora, databile ai primi di settembre: “Il buono consiste nel far poco e bello e non nel cantar molto e seccare.”
Altro che compositore indifferente alla drammaturgia: l’immagine che ricaviamo è quella di un autore molto attento all’effetto scenico e alla narrazione (“novellatore”, secondo la felice definizione di Franca Cecca), anche nel caso di una trama improbabile come questa. Donizetti prese la composizione molto sul serio, nonostante il lavoro certo non gli mancasse in quell’anno (a Napoli allestì la prima locale dell’Anna Bolena oltre a comporre una nuova opera, che sarà la citata Sancia di Castiglia, il tutto parallelamente alla composizione della musica del furioso all’isola di San Domingo): il risultato è un’opera affascinante e particolare, in cui anche gli ampi autoimprestiti mutuati da opere precedenti si innestano con grande perizia e omogeneità. Tanto per la cronaca: l’entrata di Cardenio “Raggio d’amor parea” proviene da un frammento del finale di Ugo, Conte di Parigi cassato durante le prove; dalla stessa opera (duetto tra Bianca e Adelia) provengono anche il duettino “Un arcano sentimento” tra Eleonora e Marcella e il movimento di introduzione del Finale I, che oltre all’Ugo era stato ascoltato anche nell’Introduzione della Francesca di Foix. Proprio il Finale I, peraltro, si rivela essere una delle gemme dell’opera per l’originale costruzione e l’altezza dell’ispirazione melodica. Cardenio sta raccontando a Bartolomeo le cause che lo hanno portato alla pazzia e lo fa mentre l’orchestra lo accompagna nel racconto con tensione e patetismo sempre crescenti, fino al climax della scoperta del tradimento: è allora che ci accorgiamo, quando Cardenio attacca il suo splendido Largo “Un mar, un mar di lagrime”, di essere entrati nel concertato vero e proprio, a cui pian piano partecipano tutti gli altri personaggi, nella creazione di un brano di assieme che si rivela essere il culmine della partitura. Non solo un altro grande sestetto donizettiano, degno di essere messo sullo stesso piano di quello della Lucia di Lammermoor, ma una delle più intriganti pagine dell’opera italiana del XIX secolo.
Altri autoimprestiti dell’opera consistono nel preludio che introduce il bellissimo duetto del I Atto tra Cardenio e Kaidamà (preso da Ugo, Conte di Parigi che, a sua volta, lo aveva mutuato dall’Imelda de’ Lambertazzi) mentre la cabaletta della cavatina di Eleonora riprende quella della cavatina di Imelda in Imelda de’ Lambertazzi (Donizetti aveva chiesto a Ferretti il cambio di metro commentando maliziosamente “Capisci il perché”).
Donizetti non nutriva molta fiducia nella compagnia radunata dal Teatro Valli di Roma, dove l’opera debuttò con grande successo il 2 gennaio 1833: la causa di questo scetticismo, probabilmente, era da ravvisarsi nella giovanissima età dei tre protagonisti (Giorgio Ronconi – Cardenio, Elisa Orlandi – Eleonora e Lorenzo Salvi – Fernando), tutti poco più che ventenni. In realtà il successo fu molto intenso e grande parte del merito andò proprio al cast. Per Ronconi Donizetti compose la parte di Cardenio, che assume quindi il ruolo di protagonista assoluto, creando una delle prime grandi parti da baritono romantico. La malinconia autunnale e crepuscolare di cui si tinge l’intera musica destinata al “furioso” del titolo dona al lavoro un tono di dolente romanticismo, ricco di splendide melodie: bellissimi sono i due duetti con Kaidamà (la prima frase della cabaletta di quello al II Atto – “Ho deciso e seco spento” – riprende esattamente l’inizio del I Atto dell’Elisir d’Amore, ma con sviluppo diverso) ma, oltre al già citato Finale I, andranno anche ricordati i numerosi e toccanti ariosi con cui Cardenio riflette sull’infelicità della sua condizione. Non stupisce che Ronconi abbia deciso di mantenere il ruolo in repertorio per tutta la durata della sua carriera, presentando l’opera anche a Parigi nel 1862 con immutato trionfo: all’epoca del debutto erano pochi i ruoli in cui le possibilità espressive di una voce grave, chiamata a indagare abissi di dolore e malinconia, potevano trovare uno sbocco esecutivo di così alto livello. Meno singolari, indubbiamente, le parti di Fernando ed Eleonora, cui sono affidate grandi pagine solistiche (negate, invece al protagonista) comunque irte di difficoltà vocali. Interessante, oltre al Finale I, appare l’Introduzione dell’opera (nella cui stretta Donizetti non voleva la “tempesta” che avrebbe impedito di “audire”), costruita praticamente intorno alla mini cavatina di Cardenio “Raggio d’amor parea”. È curioso notare che, nonostante la presenza di un’ambientazione esotica e lontana (tocco romantico anch’esso) nulla nella musica richiama la descrizione del paesaggio, lasciando al patetismo della voce baritonale il compito di definire il cupio dissolvi che fa da sfondo alla vicenda: l’ambientazione esotica e lontana si pone quindi come una sorta di “terra di nessuno”, in cui i protagonisti possono esprimere al massimo delle loro potenzialità i sentimenti che li animano (dolore, rimpianto, speranza) in un ambiente per tutti “neutro”. La presenza del mare, infine, sembrerebbe obbedire a quell’intento moralista che è caratteristico dell’opera semiseria: non solo la tempesta fa da sfondo alle cupe passioni dell’animo di Cardenio, ma i flutti vomitano sulla riva dell’isola la povera naufraga Eleonora (traditrice pentita) rivelandosi invece tranquilli e cheti per il sereno approdo al lido del “positivo” Fernando.
Se Cardenio, Fernando ed Eleonora sono ruoli ricchi di brani patetici, virtuosistici e, in una parola, “seri” l’elemento buffo necessario all’economia dell’opera semiseria è fornito dal personaggio di Kaidamà, tutt’altro che marginale anche se sprovvisto di una vera e propria aria solistica (a meno di non considerare tale il breve intervento nell’Introduzione “Scelsi la via brevissima”). Kaidamà si esprime con il più tipico linguaggio dei ruoli buffi: sillabato e reazioni esagerate fanno da contraltare alla cinica saggezza popolare spesso contenuta nelle sue parole. È, tuttavia, eccezionale il modo in cui Donizetti riesce a coniugare il linguaggio di Kaidamà con l’espressione nobilmente melanconica di Cardenio nei due duetti che li vedono impegnati: non solo il rischio del ridicolo e della risata fine a se stessa è sempre evitato grazie alla bellezza delle melodie, ma anche il tocco buffo si stempera in un’ironia affettuosa e “realista” in grado di commuovere con pochi e semplici accorgimenti. Un esempio lampante di questo procedimento è nel tenero Larghetto “Di quei begli occhi” del I Atto: dopo che Cardenio ha picchiato la mano di Kaidamà quest’ultimo lamenta il proprio dolore (“Mano mia che avevi fatto”) sulla stessa melodia, intonata dall’orchestra, che era servita a Cardenio per esalare il proprio cocente rimpianto di una perduta felicità. A dispetto dell’ambientazione esotica, a dispetto dell’improbabilità del viaggio a Santo Domingo, a dispetto di una trama piuttosto inverosimile ci vengono consegnati i ritratti reali di due sentimenti umanissimi e, per questo, tanto più toccanti nella loro dolente cantabilità.
Dell’opera Donizetti curò una revisione nel 1833 per la Scala (in cui sostituì le due arie per Fernando con rielaborazioni da arie del Castello di Kenilworth e inserì come Rondò finale quello del Borgomastro di Sardaam) ma sappiamo che era prevista anche un’ulteriore revisione, intitolata La fiancée du Tyrol, destinata al Théâtre de la Renaissance al pari de L’Ange de Nisida: la Renaissance, come è noto, fallì e quest’ultima revisione restò solo nelle intenzioni, mentre l’Ange diventerà La Favorite.
Ascoltare Il furioso all’isola di San Domingo
L’opera vanta, al momento, un’unica edizione ufficiale su etichetta Bongiovanni cui si affiancano le registrazioni pirata di due riprese avvenute negli anni ’50 e ’60 del XX secolo, ovvero le recite, edite da Opera D’Oro, dell’Accademia Chigiana di Siena del 1958 (che coincisero con la prima ripresa in epoca moderna dell’opera) e quelle spoletine del 1967. In nessun caso l’opera viene eseguita in versione integrale e i tagli sono più o meno ampi in tutte le registrazioni, compreso il live londinese del 1979 con Lois McDonall, Terence Sharpe e Eduardo Velazco diretti da Leslie Head (integralmente caricato su Youtube), dal suono ovattato e lontano ma nel complesso godibile. L’edizione, comunque, migliore è senz’altro l’emissione Bongiovanni che, senza che ve ne sia motivo, allarga la pubblicazione dell’opera in tre cd presentando la registrazione delle recite di Savona del 1987 con una splendida Luciana Serra, un ottimo Stefano Antonucci (che fa di Cardenio una grande creazione) e un giovane Luca Canonici con la direzione di Carlo Rizzi (il problematico ruolo di Kaidamà – rischioso perché è facile farlo scivolare in sterile parodia – è cantato con ottimo gusto da Roberto Coviello): strano osservare alcuni tagli in un’esecuzione così accurata (come il da capo di “Ho deciso e seco spento” e un frammento del duetto tra Cardenio e Kaidamà del I Atto) ma, nel complesso, si tratta dell’ascolto in grado di fornire la migliore idea complessiva dell’opera. Con un po’ di fortuna è reperibile in rete anche la registrazione delle recite bergamasche del 1998, programmate in occasione delle Celebrazioni per il bicentenario donizettiano del 1997/98: i tagli sono diversi (manca, ad esempio, il da capo di “Rapito in un’estasi” tra Eleonora e Cardenio mentre i due passaggi tra Cardenio e Kaidamà sopra citati sono reintegrati) ma, oltre a questo aspetto, il live merita l’ascolto per le ottime prove di Renato Bruson, Antonino Siragusa e, ancora una volta, Luciana Serra. In conclusione c’è da augurarsi che prima o poi Opera Rara, da sempre attiva nel recupero delle opere donizettiane, programmi una registrazione integrale dell’opera, completa di tutti i da capo e con la seconda parte del duetto Cardenio – Eleonora rimessa al suo posto e non eseguita a ridosso del rondò finale (in questo caso si tratta di un intervento spurio, operato da Vito Frazzi nel 1958 per cercare di rendere più organico il lieto fine e, poi, accolto in tutte le registrazioni al momento reperibili). Edit del 22 gennaio 2013 – Il furioso all’isola di San Domingo è in programma nell’edizione 2013 del Bergamo Musica Festival Gaetano Donizetti.
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Le foto che accompagnano l’articolo sono di Lucia T. Sepulveda.
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