Se il Nabucco fu, per Giuseppe Verdi, l’opera dell’affermazione l’Ernani si pose come il lavoro che ne consolidò il successo, diffondendosi a macchia d’olio in tutta Italia dopo il debutto del 9 marzo 1844 al Teatro La Fenice di Venezia (peraltro era la prima volta che Verdi componeva per un teatro che non fosse la Scala). Merito della travolgente piena melodica della musica verdiana, merito delle atmosfere vagamente risorgimentali e barricadere che la resero subito gradita al pubblico ma merito, anche, delle situazioni lugubri e goticheggianti di una storia che, al pari di molti film horror dei nostri tempi, vede compiersi la catastrofe finale nel momento in cui tutto sembra felicemente risolto. Ricordava il grande critico ottocentesco Filippo Filippi, nella “Perseveranza” del 31 gennaio 1881, che buona parte del successo del lavoro, negli anni subito seguenti il debutto, era da attribuirsi anche al fascino inquietante e sinistro dato dal suono del corno che ricorda a Ernani la necessità di compiere il suo suicidio d’onore: “La gente, prima di coricarsi, guardava intorno per paura che ci fosse Don Gomez De Silva col suo corno fatale, pronto a suonare durante la notte”. Il commento viene riportato in un saggio del 1951 da Emilio Radius, che chiosa giustamente: “A parte il valore della musica, impressioni simili ne fecero sul pubblico dei nostri tempi soltanto certi film muti che giovavano della suggestione di una nuova arte o di un nuovo artificio”. Era forse perché consapevoli dell’effetto “estremo” e terrorizzante offerto dal misterioso suono che avviene fuori scena, che durante le prove organizzatori e censori (che già avevano tollerato la scelta di un soggetto considerato “scandaloso” come l’Hernani di Hugo) avanzarono dei dubbi sul cupo si naturale con cui Silva annuncia, nel IV Atto, la sua vendetta? Le atmosfere goticheggianti e misteriose dell’Ernani non finiscono, tuttavia, qui: è indimenticabile il cupo impasto orchestrale con cui si apre il III Atto tra i sepolcri di Aquisgrana. La toccante meditazione di Don Carlo sulla futilità della vita viene introdotta da un celeberrimo assolo di clarino basso (lo stesso strumento protagonista dello splendido Preludio all’Atto II della Maria de Rudenz e che, incredibilmente per l’epoca, il Teatro La Fenice aveva stabilmente in organico) che contribuisce a definire un clima di sepolcrale suggestione: come nota Fabrizio Della Seta in origine l’assolo doveva essere di tromba, ma la presenza di questo strumento così particolare in organico e il fascino del suo timbro così insolito sono stati più attraenti per il giovane compositore.
La trama: In Spagna, nel 1519. Il nobile Don Giovanni d’Aragona, caduto in disgrazia a causa del re Don Carlo, è divenuto un bandito sotto il nome di Ernani ed è innamorato della bella Elvira, amata anche dal re Don Carlo e dal vecchio Don Ruy Gomez de Silva, che intende sposarla a breve. Ernani, Elvira e Don Carlo vengono scoperti nelle stanze della donna da Silva, che calma la sua ira solo quando riconosce il proprio sovrano (che aiuta la fuga di Ernani) in Don Carlo. Il bandito prepara una rivolta contro il trono che, però, fallisce e l’uomo chiede ospitalità nel castello dei Silva nel giorno previsto per le nozze tra Don Ruy e Elvira. Silva nasconde il bandito dall’ira di Don Carlo (che però porta con sé Elvira) e intende ucciderlo. Ernani lo convince ad accoglierlo tra coloro che congiurano contro il re, ma ad un patto: quando Silva suonerà il corno che il bandito gli lascia in pegno Ernani dovrà uccidersi. La congiura fallisce e Don Carlo, eletto imperatore come Carlo V ad Aquisgrana, perdona i ribelli dando Elvira in sposa a Ernani. Ma Silva non dimentica la sua vendetta e, durante la festa di nozze di Elvira ed Ernani (che ha riacquistato il suo titolo nobiliare) suona il corno fatale, costringendo Ernani al suicidio d’onore mentre Elvira, disperata, sviene.
Ernani opera tra passato e futuro
Ernani è un’opera estremamente esemplificativa dei cambiamenti cui il genere stava andando incontro negli anni ’40 del XIX secolo: le novità formali sono infatti tante quanti almeno i debiti del lavoro con il clima dell’opera quale la si ascoltava negli anni ’30 dell’Ottocento, ma quello che ancora oggi desta estrema ammirazione è la nonchalance con cui un Verdi giovane, ma dalle idee già chiarissime in materia di drammaturgia, riesce a giocare con la classica struttura della “solita forma”, piegandola con naturalezza alle esigenze drammaturgiche dell’intreccio. Un buon esempio è nella scena di sortita di Elvira, strutturata secondo la logica Recitativo – Cavatina – Tempo di mezzo – Cabaletta, in cui però l’utilizzo del virtuosismo (trilli e colorature) e la piena melodica della voce innervano il canto di un impeto travolgente, che ben doveva stimolare la fantasia di quanti vedevano nell’invocazione della donna (“Ernani involami”) la rappresentazione dell’Italia che doveva essere involata ai suoi invasori.
Eppure in origine doveva essere Cromwell e non Ernani, anche se in realtà il libretto che Francesco Maria Piave aveva preparato (e che verrà musicato da Giovanni Pacini quattro anni dopo) era Allan Cameron, approvato dalla censura che aveva invece bocciato la proposta dei Due Foscari di Byron, un “fatto veneziano” che venne rifiutato per evitare di offendere i discendenti di alcune delle famiglie portate in scena nella vicenda. Verdi, tuttavia, non era affatto convinto del soggetto propostogli da Piave, peraltro alle prime esperienze nell’ambito del teatro lirico (da cui un’ulteriore diffidenza), e colse al volo il suggerimento del presidente del Teatro La Fenice, marchese Nanni Mocenigo, che avanzò l’ipotesi Hernani. “Oh, se si potesse fare l’Hernani, sarebbe una gran bella cosa!” è il commento che troviamo in una lettera del periodo, diretta proprio a Mocenigo. Quest’opera segna anche la prima collaborazione tra Verdi e Francesco Maria Piave, il librettista che diventerà compagno nella creazione di molti capolavori e che, come nota Julian Budden, “come collaboratore […] era pieno di risorse e molto accomodante: due qualità che Verdi apprezzò immediatamente, pur non dimenticando l’iniziale sfiducia nelle sue capacità”. Un altro problema da risolvere durante la gestazione di Ernani era quello del musico contralto Carolina Vietti, per la quale gli impresari chiedevano venisse scritta una parte en travesti e, almeno per i primi tempi, sembra che a lei fosse destinata (incredibilmente) proprio la parte di Ernani, secondo lo stesso schema che avremmo ascoltato se Vincenzo Bellini nel 1830 avesse composto il suo progettato (e mai composto) Ernani: Ernani (contralto), Doña Sol / Elvira (soprano), Don Carlo (tenore) e Silva (baritono). Anche se poi Verdi riuscì ad ottenere che la Vietti en travesti non assumesse la parte del protagonista questa ipotesi, ventilata per poco, ci conferma i debiti “belcantisti” di un’opera che accoglie al suo interno buona parte del linguaggio tipico del primo Ottocento: in effetti il termine “belcantista” è improprio (come notava a suo tempo Rodolfo Celletti “il belcantismo morì con l’opera astratta e asessuata”) ma utile a definire un clima musicale da contrapporre agli scatti violenti del Verdi più maturo. Ernani, comunque, sarebbe stato affidato a un tenore (Carlo Guasco, dato che il previsto Domenico Conti cantò così male negli inaugurali Lombardi alla prima crociata che Verdi preferì aspettare l’arrivo di Guasco per la stagione di Quaresima), il baritono Antonio Superchi si vide affidato Don Carlo e Sofia Loewe assunse la parte di Elvira (ma alla prima stonò tutta la sera); un problema era costituito da Silva, una parte composta per essere assunta da un basso comprimario, ma venne risolto con Antonio Selva, un artista del coro che proprio con Ernani iniziò la sua carriera da solista. Che la parte di Silva fosse destinata a un artista di minor spessore ce lo rivela la struttura del suo unico momento solistico, l’assolo “Infelice! E tuo credevi” che è, sì, splendido ma è anche inserito come introduzione al Finale I ed è privo della cabaletta che, invece, hanno sia il tenore e il soprano (al I Atto) che il baritono (II Atto).
La presenza di un Ernani contralto, fatta uscire dalla porta, rientrò però dalla finestra in un paio di occasioni, una delle quali rimasta (giustamente) celeberrima: nel luglio del 1847 l’Ernani è in cartellone a Londra, ma sia Giorgio Ronconi che Antonio Tamburini rifiutano la parte di Don Carlo, che viene così assunta (presumibilmente senza alcuna trasposizione, ché altrimenti non si capirebbe l’entusiasmo) nientemeno che da Marietta Alboni, con grande successo di pubblico. Nella recente pubblicazione di Marco Beghelli e Raffaele Talmelli Ermafrodite Armoniche (dedicata appunto al contralto nell’Ottocento) notano infatti gli autori che, vista l’abitudine dell’epoca ad affidare ruoli maschili a interpreti femminili, se la parte fosse stata trasposta la notizia avrebbe sicuramente perso il suo carattere di evento unico. Peraltro pochi anni dopo, oltreoceano, un’impresa simile sarà effettuata anche dal mezzosoprano Mathilde van Gulpen, Don Carlo in un Ernani a San Francisco. Un altro aspetto interessante che lega l’opera al clima “artigianale” del primo Ottocento è la presenza di due brani alternativi, in uno dei quali trova addirittura spazio uno dei pochissimi casi (forse l’unico) di autoimprestito verdiano: si tratta della cabaletta “Infin che un brando vindice”, aggiunta da Ignazio Marini al cantabile di Silva (un ruolo che, così, aumentava la sua importanza creando un’aria con cabaletta là dove in realtà era previsto il solo cantabile) durante le recite di Vienna e Milano avvenute in quello stesso 1844. La musica è sorprendentemente simile alla cabaletta di Nabucco “Oh prodi miei” (nel passaggio “Vedrem tutto rifulgere”) e a quella di Roger in Jérusalem (“Ah, viens démon. Esprit du mal”) e per lungo tempo si è dubitato circa l’autenticità di questo pezzo: il fatto che sia di Verdi è stato dimostrato da Roger Parker, che ne ha anche individuato l’origine in alcune recite spagnole (avvenute a Barcellona) dell’Oberto, Conte di San Bonifacio nel 1841-42 con Ignazio Marini, appunto, e la moglie, Antonietta Rainieri-Marini (tra le grandi promotrici dell’opera d’esordio verdiana). Per queste recite Verdi compose una nuova aria d’entrata per Marini ed è in quest’occasione che appare la cabaletta “Ma fin che un brando vindice” che poi, con molto senso, lo stesso Marini farà trasmigrare in Ernani. L’altro brano alternativo è una grande scena tenorile (“Odi il voto”) composta da Verdi su esplicita richiesta di Gioachino Rossini per il tenore Nicola Ivanoff (Nikolaj Kusmič Ivanov), protetto del pesarese, il quale la eseguì per la prima volta a Parma nell’autunno del 1844: si tratta di un’ampia aria da porre al termine del II Atto che doveva mettere in luce le qualità migliori di Ivanoff con una melodia elegiaca e toccante che, però, rallenta davvero troppo lo sviluppo drammatico in un momento (Finale II) in cui invece la stesura originale sembra più convincente e concisa
Dove Ernani guarda decisamente al “futuro” è nella disinvolta gestione della “solita forma” a fini drammaturgici: ne sono due esempi la gestione del Duetto Carlo – Elvira del I Atto e la grande scena solista di Don Carlo nel II Atto. Nel primo caso un brevissimo tempo di attacco (nella cui brillantezza di esposizione viene recuperata l’ironia del testo originale di Hugo) conduce all’appassionata dichiarazione d’amore del baritono (cui il soprano risponde picche con un brillante tempo di bolero) ma confluisce in un terzetto – in luogo della prevista cabaletta – grazie all’inaspettato ingresso in scena del tenore. Nel secondo caso la struttura della scena solistica viene mantenuta, ma appare estesa a una sorta di ampia scena con cori dalla dilatazione del tempo di mezzo (in cui trova spazio anche l’appassionata perorazione di Silva “Io l’amo, al vecchio misero”) prima di una cabaletta (“Vieni meco”) che di cabalettistico, a ben vedere, non ha quasi più nulla. La rigorosa drammaturgia della vicenda (ogni atto è più breve del precedente, una caratteristica a cui Verdi teneva molto) è particolarmente evidente nella struttura del III e IV Atto, la cui concisione e snellezza appaiono assolutamente perfette. La forma dell’opera italiana viene anche recuperata per suggerire quella mescolanza di generi che tanto scandalizzò e conquistò nell’originale dramma di Hugo: se la censura aveva categoricamente vietato la scena in cui il re si nascondeva nell’armadio di Doña Sol, il concertato del Finale I vira in un clima altamente drammatico una scena (i rivali che si nascondono in camera della bella promessa al vecchio pretendente) da sempre momento clou del genere comico. Giocando con le forme e con le strutture dell’opera italiana Verdi perviene, così, a un risultato eccellente in quel processo di mescolanza dei generi che, introdotto nel repertorio dal genere semiserio, lo condurrà a scrivere nel 1862 quella che secondo alcuni può essere considerata come l’ultima opera “semiseria” del repertorio ottocentesco (Falstaff è un caso a sé), ovvero La forza del destino. Da questo punto di vista l’Ernani non raggiunge ancora l’approfondimento del Rigoletto (altro testo, guarda caso, tratto da Hugo) ma è comunque superiore non solo a quanto Verdi aveva già composto ma anche a buona parte delle opere successive degli “anni di galera”.
Victor Hugo, comunque, non fu soddisfatto di questo adattamento che reputò decisamente infedele ma, in realtà, stupisce un po’ l’acredine nei confronti di una riduzione che (se si esclude il cambiamento del nome della protagonista da Doña Sol a Elvira – peraltro già presente nell’abortito progetto belliniano) riesce a trasmettere molta dell’atmosfera della pièce originale. Peraltro va notato che a Parigi, nel 1834, era andato in scena un Ernani su musica del bolognese Vincenzo Gabussi senza che ci siano giunte notizie di riprovazione da parte di Hugo.
Ernani opera del Risorgimento
Ho già accennato a come la figura di Elvira che invoca la salvezza nella solitudine delle sue stanze corrispondesse, nell’immaginario collettivo, alla rappresentazione dell’Italia che doveva essere salvata dai suoi tiranni: il momento più forte per il pubblico dell’epoca fu comunque la congiura del III Atto. La censura ottenne che non venissero snudate le spade, ma il travolgente coro “Si ridesti il leon di Castiglia” (con i suoi evidenti riferimenti al “leon di San Marco”) scatenò vere e proprie ovazioni nelle platee non solo veneziane, ma di tutta Italia.
Un altro grande momento di emozione collettiva era fornito dal Finale III, ovvero il concertato “O sommo Carlo”, in cui il neo imperatore Carlo V dona la sua clemenza ai congiurati che hanno attentato alla sua vita. Due anni dopo la prima di Ernani, il 16 luglio 1846, Pio IX ascese al soglio pontificio e il suo primo provvedimento fu la concessione dell’amnistia per i reati politici, un provvedimento che, unito alla progressiva apertura alle richieste liberali della popolazione in una serie di grandi riforme dello Stato Pontificio, portò il nuovo Papa a porsi come simbolo delle istanze rinnovatrici della società, fino addirittuta alla concessione di una costituzione (lo Statuto Fondamentale pel Governo Temporale degli Stati della Chiesa) nel marzo 1848. L’entusiasmo popolare trovò espressione proprio nel brano in questione, con artisti e pubblico che durante le recite sempre più spesso sostituivano, e a furor di popolo, “Carlo Quinto” e “Carlo Magno” con “Pio Nono”, cantando così “A Pio Nono sia gloria e onor” nei moltissimi teatri che programmavano l’Ernani nelle loro stagioni.
Ascoltare Ernani
Di fatto Ernani non è mai uscito dal repertorio dei teatri e questa permanenza nella vita esecutiva si riflette nella ricchezza di una discografia notevole per quantità e qualità. La storia discografica dell’opera riflette quella della programmazione artistica, potendo essere divisa in esecuzioni che la normalizzano allo stile del Verdi più maturo (praticamente le esecuzioni fino agli anni ’70) ed altre (più recenti) maggiormente concentrate ad esaltare le caratteristiche belcantiste della scrittura. In generale tutti i live fino all’incisione in studio della Rca del 1967 (con Carlo Bergonzi, Leontyne Price, Mario Sereni ed Ezio Flagello diretti da Thomas Schippers) presentano tagli più o meno vistosi, ma andranno ricordate alcune prove superbe, come quelle di Franco Corelli (live dal Met), Anita Cerquetti (live fiorentino), Mario del Monaco (live radiofonico) e Leonard Warren (live newyorkese), non accolte dal disco ufficiale. La già citata incisione Rca si conferma ancora oggi una delle emissioni migliori dell’opera, gestendo Schippers l’incandescente materia con grande equilibrio e accuratezza e avvalendosi inoltre di un ottimo cast vocale. Notevolissima è pure l’incisione Emi live dell’inaugurazione milanese del 1982, con un buon Plácido Domingo, una brava Mirella Freni e un ottimo Renato Bruson, Don Carlo di grande fascino. Bellissima appare anche la direzione di un Riccardo Muti molto ispirato e, all’epoca, oggetto di alcune polemiche per la non esecuzione della cabaletta “Infin che un brando vindice” il cui taglio, più che a problemi di ordine filologico, venne imputato dal pubblico alla volontà di non affaticare il Silva di Nikolaj Ghiaurov, comunque impressionante per bellezza di timbro e autorevolezza d’accento. L’emissione solo audio della Emi è decisamente preferibile al dvd (edito dalla Warner) in cui viene proposto uno dei più incomprensibili e deliranti spettacoli di Luca Ronconi. Più tradizionale è
invece il dvd Decca dal Metropolitan Opera, in cui nel 1983 (ma lo spettacolo è ancora oggi in repertorio) Pierluigi Samaritani allestì un Ernani suggestivo e monumentale attorno all’ottimo protagonismo di Luciano Pavarotti (che per l’occasione inserì “Odi il voto”) attorniato dalla brava Leona Mitchell e dai più affaticati Sherrill Milnes e Ruggero Raimondi guidati con il consueto professionismo da James Levine. Pavarotti ritorna nell’edizione Decca del 1988 (pubblicata, però, dieci anni dopo) accanto alla deludente Elvira di Joan Sutherland e alle discutibili prove di Leo Nucci e Paata Burchuladze diretti da Richard Bonynge. L’impostazione “belcantista” dell’edizione sarebbe indubbiamente stata interessante, ma è arrivata francamente troppo tardi (soprattutto per la Sutherland, comunque non priva di bei spunti) e, per ascoltare l’Ernani da questa angolazione, appare più convincente il live Nuova Era che riproduce la registrazione delle recite di Martina Franca del 1991 con Vincenzo La Scola, Daniela Dessì, Paolo Coni e Michele Pertusi diretti da Giuliano Carella. La storia di Ernani, praticamente, finisce qui se si esclude il dvd Dynamic delle recite parmensi del 2005, che è gradevole ma, in fondo, impari all’arduo confronto con una storia discografica così ricca e fruttuosa. Nel complesso (ed escludendo dal post le innumerevoli incisioni di arie staccate che, soprattutto per quanto riguarda i baritoni di inizio ‘900, sono però davvero affascinanti) ritengo che le edizioni migliori siano la Rca 1967, la Emi 1982 e la Nuova Era 1991, tutte complessivamente molto interessanti e in grado di proporre interpretazioni abbastanza personali e pertinenti di un’opera così singolare.
Bibliografia consultata
- Budden Julian: Ernani in Le opere di Verdi Vol.I Da Oberto a Rigoletto, Torino, Edt
- Girardi Michele: Ernani, il tempo degli ideali in Ernani, Parma 2005
- Mila Massimo: La giovinezza di Verdi in Verdi, Bologna, Rizzoli
- Parker Roger: “Infin che un brando vindice” e le cavatine del primo atto di Ernani in Ernani ieri e oggi: atti del convegno internazionale di studi, Modena, Teatro San Carlo, 9-10 dicembre 1984
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Le foto che accompagnano l’articolo sono di Lucia T. Sepulveda.
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#1 di icittadiniprimaditutto il 18 febbraio 2012 - 20:21
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