Quaresima – 1: Mosè in Egitto di Gioachino Rossini (e il Mosè “nuovo”)

Ogni luogo comune contiene un fondo di verità e a questa regola non fa eccezione nemmeno il mito degli italiani faciloni e inclini al compromesso per salvare capra e cavoli nelle situazioni più disparate. Un buon esempio di questo atteggiamento è nella tradizione di opere su argomento biblico e sacro che, durante il periodo della Quaresima (in cui per rispetto i teatri sarebbero dovuti esser chiusi) venivano allestite per la gioia di tutti: gli impresari non erano costretti all’inattività, compositori e artisti potevano continuare a lavorare e ad esibirsi, il pubblico non era costretto a rinunciare alla sua passione per il canto e per l’opera e la Chiesa (che nel repertorio più “profano” esigeva cambiamenti nei libretti sostituendo “Dio” con “Nume” o “chiesa” con il più generico “tempio”) poteva guardare con comprensione e interesse alla messa in scena di edificanti storie sacre che avrebbero accompagnato i fedeli (questo almeno nelle intenzioni) lungo il percorso di meditazione del periodo quaresimale dopo le follie carnevalesche. Alcuni dei lavori più belli, ispirati e poetici all’interno di questo genere così particolare (considerato elevatissimo, e per questo tra i più ambiziosi che un compositore potesse imporsi) vennero prodotti, nei primi anni del XIX secolo, al Teatro San Carlo di Napoli, teatro in cui la cosiddetta “opera quaresimale” (spesso definita come “Azione tragico sacra” o, più semplicemente, “Oratorio”) conobbe una duratura fortuna. Proprio a Napoli venne creata, il 5 marzo 1818, l’opera quaresimale forse più celebre di tutte: il Mosè in Egitto di Gioachino Rossini.

La trama – Il libretto di Andrea Leone Tottola è tratto dal libro dell’Esodo. L’Egitto geme sotto la piaga delle tenebre e il Faraone decide, pur di far cessare il flagello, di liberare gli ebrei prigionieri. Osiride, figlio del Faraone, si dispera perché sa che con la partenza del popolo perderà l’amata Elcia, sua segreta sposa ebrea; causando una rivolta nel popolo egizio riesce a impedire la partenza ma Mosè fa piovere fuoco e grandine. Il Faraone si convince a lasciar partire gli ebrei, comunicando a Osiride che lo ha promesso alla principessa d’Armenia; il giovane preferisce fuggire con Elcia ma il piano è sventato da Aronne, fratello di Mosè, e Amaltea, madre di Osiride. La partenza viene ancora revocata dal Faraone ed Elcia prega Osiride di dimenticarla e lasciare liberi gli ebrei. Osiride rifiuta e si scaglia contro Mosè ma viene colpito da un fulmine e muore, mentre l’Angelo sterminatore attraversa la reggia uccidendo i primogeniti egizi. Giunti sulle rive del Mar Rosso gli ebrei credono di essere in trappola ma Mosè, dopo aver pregato, apre un varco nelle acque che si richiuderanno sull’esercito di Faraone lanciato all’inseguimento.

Caratteristiche dell’opera quaresimale erano:

  • soggetti biblici e veterotestamentari (dando una rapida scorsa ai titoli allestiti non si notano infatti mai Oratori tratti dal Nuovo Testamento), che a volte giungevano alla riduzione librettistica tramite la mediazione di qualche tragedia sacra;
  • benché l’intreccio amoroso tra due protagonisti fosse spesso presente il nucleo di ogni vicenda era nella contrapposizione violenta tra popoli nemici, ovvero ebrei da un lato e oppressori dall’altro;
  • il conflitto tra popoli era tradotto in un uso massiccio del coro in pagine di preghiera e invocazione; molto spesso il nucleo amoroso e privato della vicenda avveniva tra esponenti dei popoli in conflitto, con un’attenzione alla rappresentazione del sentimento privato in insanabile antitesi con la lotta pubblica;
  • un sacerdote/condottiero/capo ammantato di sacralità era spesso a capo della popolazione, esprimendosi per lo più in incisivi recitativi declamati e in preghiere dalla strumentazione fortemente caratteristica e simbolica (arpa nelle invocazioni, spesso i “soprannaturali” ottoni per le scene di apparizione divina);
  • nonostante la definizione di “Oratorio” l’attenzione all’aspetto scenico era essenziale e, anzi, la rappresentazione di avvenimenti soprannaturali tramite raffinati artifici scenici era considerata una parte fondamentale del genere: a questo scopo erano presenti spesso ampi interludi strumentali che dovevano accompagnare gli effetti speciali della scena.

Queste caratteristiche si ritrovano, in maniera più o meno evidente, in una serie di lavori che, soprattutto dal 1818 ai primi anni ’30 dell’800, approdano sul palcoscenico del Teatro San Carlo in serate che possiamo definire d’opera a tutti gli effetti, dato che l’unico aspetto che distingueva queste prime quaresimali dalle normali stagioni di spettacolo (oltre ai soggetti biblici) era l’assenza degli intermezzi di ballo tra un atto e l’altro, unico vero ossequio degli artisti al rigore del periodo religioso.

Il 1818 non è una data casuale: è in quell’anno, difatti, che Gioachino Rossini (che pure si era già accostato a soggetti biblici e moralmente edificanti al Teatro Comunale di Ferrara, nel 1812, con il Ciro in Babilonia, ossia la caduta di Baldassare, peraltro definita dallo stesso autore come uno dei suoi “fiaschi”) fa rappresentare il Mosè in Egitto, commovente capolavoro che contiene al suo interno tutte le caratteristiche essenziali di una vera opera quaresimale:

  • il soggetto è tratto dal Libro dell’Esodo mediato, tuttavia, dalla tragedia L’Osiride di Francesco Ringhieri, monaco olivetano che era riuscito a sincretizzare l’anelito alla fede e la passione per il teatro in un testo di notevole interesse drammatico;
  • i popoli contrapposti sono gli ebrei oppressi dagli egiziani, ma all’interno di questo conflitto troviamo l’amore impossibile tra l’ebrea Elcia e l’egiziano Osiride;
  • il coro è impegnatissimo (sia nell’impersonare gli egiziani che nell’impersonare gli ebrei) in pagine dal forte afflato emotivo e ricche di pathos nella condivisione di sentimenti collettivi;
  • Mosè è un ruolo sostanzialmente privo di interventi solisti ma impegnato in ampie pagine di recitativo declamato a sfondo tragico e sublime (a cominciare dalla potente invocazione “Eterno, immenso, incomprensibil Dio” con cui, dopo l’introduzione, viene resa la luce all’Egitto immerso nelle tenebre);
  • Un bellissimo e poetico interludio strumentale chiude l’opera descrivendo la morte degli egiziani inghiottiti dalle acque del Mar Rosso e il riuscito passaggio del popolo ebraico all’altra sponda: l’interludio accompagna l’impegno scenografico della spettacolare e complessa scena finale; in effetti rendere, nell’ambito delle piaghe d’Egitto, quella del buio è scenicamente abbastanza facile, ma indubbiamente la pioggia di fuoco e grandine del Finale I e l’apertura del Mar Rosso al III Atto sono momenti dall’eccezionale impatto visivo, in grado di impensierire macchinisti e scenografi ancora oggi… figurarsi nel 1818. Da notare che le tenebre sono, secondo l’Esodo, la nona delle dieci piaghe d’Egitto, mentre la pioggia di fuoco e grandine la settima, nel libretto preposta alla morte dei primogeniti maschi per evidenti ragioni drammaturgiche e spettacolari.

Secondo la leggenda, fu proprio il ridicolo effetto causato dall’apertura del Mar Rosso al III Atto a causare sonore risate nel pubblico, un semi-fiasco alla prima e conseguente decisione rossiniana di inserire nel corpo dell’opera, l’anno successivo durante le repliche della ripresa, la celebre Preghiera “Dal tuo stellato soglio”, che Stendhal vuole scritta in pochi minuti da un Rossini intento a gozzovigliare allegramente con i suoi amici. In realtà sappiamo che, in effetti, al debutto del 1818 l’effetto del Mar Rosso fu ben misero, ma non impedì al Mosè in Egitto di cogliere un vivo successo; inoltre la decisione di riscrivere l’intero III Atto con la nuova preghiera non venne presa durante le repliche del 1819 ma fin dalla prima recita della ripresa, smentendo così il colorito aneddoto stendhaliano. La stesura originale dell’atto finale così come la udì il pubblico napoletano del 1818 non ci è pervenuta, per cui non possiamo sapere se, oltre alle debolezze della resa scenica nell’apertura delle acque, l’opera soffrisse anche di un calo drammaturgico nella scena conclusiva. L’Atto III del 1819, nella sua concisione e nella toccante emozione della Preghiera aggiunta, si situa comunque tra i risultati più alti ottenuti da Rossini, tanto che il Mosè (nella versione parigina tradotta in italiano) restò assieme al Guglielmo Tell l’unico titolo serio rossiniano rimasto praticamente in repertorio fino alla Rossini Renaissance del secondo dopoguerra. Ma le meraviglie del Mosè in Egitto non si esauriscono nel suo finale: fin dall’Introduzione, che descrive l’afflizione del popolo egizio immerso nelle tenebre, si nota l’attenzione di Rossini nel descrivere la disperazione e il dolore di un intero popolo, espresso in una pagina di grande espressività che, fin dall’inizio, immerge lo spettatore nel pieno della vicenda.

Appare evidente l’impegno di Rossini nel dimostrarsi all’altezza delle aspettative di questo genere “elevatissimo”, un impegno che lo stesso compositore (tra i soliti scherzi e motteggi) conferma anche nelle sue lettere: “Io Ho quasi terminato L’Oratorio e va benone. E di un Genere però Elevatissimo, e non so se questi mangia Macheroni lo Capiranno. Io però scrivo per la Mia Gloria e non curo il Resto” e anche “un Genere non di molto effetto Popolare ma Sublime e fatto per accrescere La mia Radicale Riputazione”. Per poter essere all’altezza del genere “Sublime” Rossini pose un’attenzione speciale alla costruzione e all’effetto delle grandi scene di massa caratteristiche degli oratori quaresimali, trascurando quasi del tutto i momenti solistici: l’aria del Faraone “A rispettarmi apprenda” venne affidata a Michele Carafa mentre l’aria di Mosè “Tu di ceppi m’aggravi la mano” fu composta da un collaboratore rimasto anonimo. Nella ripresa del 1820, per il Faraone di Antonio Ambrosi, Rossini rimpiazzò il brano di Carafa con la spettacolare “Cade dal ciglio il velo” ma questo medesimo pezzo venne da Ferdinand Hérold (in occasione di un allestimento parigino del 1822) riadattato per Mosè con il testo “Dal Re de’ Regi” mentre il Faraone, presumibilmente, riacquistava l’aria di Carafa eseguita nelle recite del 1818 e 1819 a Napoli. Diversa la situazione per le due primedonne: per Amaltea (che alla prima venne interpretata dall’artista ospite Frederike Funk) Rossini inserì nel corpo dell’opera la grande aria di Amira “Vorrei veder lo sposo” dal Ciro in Babilonia, lavoro come abbiamo visto di genere affine, che divenne “La pace mia smarrita”. Nella ripresa del 1819, senza la Funk, l’aria di Amaltea venne tagliata, dimostrando come fosse, in effetti, nulla più di una concessione alle convenienze ed inconvenienze teatrali tanto care agli artisti dell’epoca.

Per l’ebrea Elcia, destinata al talento della grande Isabella Colbran, la definizione di Coro, Recitativo e Aria che accompagna “Porgi la destra amata” appare persino riduttiva nei confronti di una grande scena di massa, che dalle movenze quasi prebelliniane della prima sezione trapassa in un grande concertato con la morte dei primogeniti d’Egitto e la disperazione della protagonista: è questo un brano di grande espressività, che non a caso fu molto lodato dai recensori della prima (che criticarono quanti ritenevano fin troppo lacerante la disperazione di Elcia sul cadavere di Osiride).

Se le arie soliste sembrano disinteressare Rossini le scene d’assieme e i confronti tra i personaggi assumono un rilievo eccezionale: oltre allo splendido falso canone della ritrovata luce nel I Atto (“Celeste man placata”) spicca il grande Quartetto del II Atto, preceduto da una lunga introduzione orchestrale e dal malinconico duetto tra Elcia e Osiride.

Uno scrittore del calibro di Honoré de Balzac (che inserì una sera a teatro con il Mosé nel suo Massimilla Doni del 1837) considerava lo splendido “Mi manca la voce”, subito seguente il duetto, come uno dei grandi capolavori della musica, degno di stare al fianco del Finale del Don Giovanni di Mozart.

Mosè in Egitto, il Mosè “nuovo” e il  Risorgimento

Balzac definisce il Mosè come “le plus immense opéra qu’ait enfanté le plus beau génie de l’Italie” e in Massimilla Doni descrive con estrema dovizia di particolari le emozioni e suscitate nel pubblico sia dalla grande e terribile scena introduttiva nelle tenebre sia, soprattutto, dal sentimento collettivo suscitato nella celebre Preghiera “Dal tuo stellato soglio”: i protagonisti del racconto sono alla Fenice e osservano come il pubblico letteralmente impazzisca dopo l’esecuzione del brano (“L’intera sala volle riascoltare la preghiera applaudendola a oltranza.”). Il motivo è semplice:

Sembra che innalzandosi verso i cieli, il canto di questo popolo uscito dalla schaivitù incontri canti discesi dalle sfere celesti. […] Il genio di Rossini ci porta ad altezze prodigiose. Da lì, noi scorgiamo una terra promessa dove i nostri occhi carezzati da luci celesti si perdono senza trovarvi orizzonti.

Anche se Balzac descrive una serata passata ad ascoltare il Mosè in Egitto nella sua versione originale non andrà dimenticato che il 26 marzo 1827 era stata creata al Teatro dell’Accademia Reale di Musica di Parigi la revisione francese dell’opera, intitolata Moïse et Pharaon, ou Le passage de la Mer Rouge. I cambiamenti non sono né pochi, né di poco conto: un intero Atto viene preposto alla scena delle tenebre, che nel Moïse apre il II Atto, vengono aggiunte le danze, i rapporti tra i personaggi mutano radicalmente (Osiride, qui Aménophis, non muore nello sterminio dei primogeniti d’Egitto ma affogato nel Mar Rosso dopo essere stato rifiutato da Elcia, ora Anaï) e l’opera, in generale, perde la stringatezza e la drammaticità dell’Azione tragico-sacra di Napoli 1818, per diventare un lussuoso grand opéra. Il Moïse venne tradotto in italiano da Calisto Bassi e, con il titolo Il nuovo Mosé, allestito in tutta Italia fino a soppiantare definitivamente, dopo le iniziali perplessità del pubblico, la versione napoletana e diventare un’icona risorgimentale:  era facile identificare emozionalmente la struggente nostalgia degli ebrei in cammino verso la Terra Promessa con l’anelito degli esuli e ribelli italiani in cammino verso la creazione della propria Italia “promessa”. Il Mosè “nuovo” venne allestito già nel 1829 nello stesso Teatro San Carlo che aveva ospitato il debutto del Mosè in Egitto il 5 marzo 1818. La diffusione progressiva del Mosè “nuovo” ha condotto alla creazione di una serie di fraintendimenti critici che sono stati sfatati solo in epoca recente: il più duraturo fu la convinzione che il Mosé in Egitto non fosse altro che una sorta di prova generale della versione parigina, che avrebbe decisamente migliorato i limiti del prodotto napoletano. In realtà, dato che Mosè in Egitto e Moïse et Pharaon appartengono a due generi e a due estetiche radicalmente diverse, risulta ozioso ancor prima che difficile stabilire un’arbitraria graduatoria di merito.

Ascoltare Mosè in Egitto

I pregiudizi critici di cui sopra si sono riverberati anche nella vita teatrale dell’opera: se è vero che il Mosè restò, di fatto, in repertorio diradando le sue apparizioni ma senza mai scomparire del tutto, quello che si ascoltò fino alla Rossini Renaissance fu essenzialmente il Mosè “nuovo”, ovvero la versione francese tradotta in italiano, e, ovviamente, tutte le incisioni (o quasi) fino al 1981 rispecchiano tale edizione. Nel 1981 scese in campo la Philips incidendo il Mosè in Egitto con la direzione di Claudio Scimone e le voci di Ruggero Raimondi (Mosè), Ernesto Palacio (Osiride), June Anderson (Elcia) e Salvatore Fisichella (Aronne) in bella evidenza (più discutibile, invece, la coppia egizia formata da Siegmund Nimsgern e Zehava Gal). L’incisione è stata recentemente ristampata nella collana di opere a medio prezzo della Decca. Anche la Naxos, forte dei suoi prezzi popolarissimi, ha incluso il Mosè in Egitto nel proprio catalogo, pubblicando la registrazione live di un allestimento del festival Rossini in Wildbad. L’edizione è nel complesso godibile ma, al di là della buona prova di Lorenzo Regazzo come Mosè, non appare granché entusiasmante. Nel cd Decca sono presenti l’aria del Faraone “Cade dal ciglio il velo” e quella di Mosè “Tu di ceppi m’aggravi la mano” mentre nella pubblicazione Naxos il Faraone si vede assegnata l’aria di Carafa “A rispettarmi apprenda” mentre Mosè canta “Dal Re de’ Regi”. Tra le registrazioni private e live dell’opera, mai approdate al disco ufficiale, particolare interesse ne assumono due: il live da Pesaro del 1983 (con uno spettacolare Rockwell Blake, il bravo Simone Alaimo quale Faraone, una toccante Cecilia Gasdia e la suadente Amaltea di Daniela Dessì) e il live napoletano del 1993 (di cui esiste anche il video negli archivi Rai) con Roberto Scandiuzzi, Mariella Devia, Rockwell Blake, Gloria Scalchi e Michele Pertusi diretti da Salvatore Accardo nel barbarico e suggestivo allestimento di Hugo De Ana.

Le foto che accompagnano l’articolo riproducono particolari del celebre Mosè di Michelangelo.

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  1. #1 di icittadiniprimaditutto il 25 marzo 2012 - 15:09

    Reblogged this on i cittadini prima di tutto.

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