Stavolta il gioco per Edita Gruberová e Christof Loy non è riuscito, né alla cantante né al regista, e nessuno dei due replica il grande miracolo del Roberto Devereux e, nel caso della sola Gruberová, la sorprendente riuscita della Norma: deludente, difatti, questa Lucrezia Borgia immortalata in dvd dalla Medici Arts (e disponibile nel catalogo della EuroArts con tanto di succulento bonus sull’arte del Belcanto che non mancherà di destare deliqui nei fans) che riproduce il debutto scenico (quello vocale era avvenuto poco prima al Liceu di Barcellona) della Santa di Bratislava nel ruolo della fosca figlia di papi ospitato, manco a dirlo, alla Bayerischen Staatsoper di Monaco. L’opera, come già il Roberto Devereux, non è del tutto adatta all’organizzazione vocale dell’artista (e in questa fase della carriera, poi) ma in questo caso non aiuta nemmeno lo spettacolo di Christoph Loy, tanto riuscito, coinvolgente e interessante nel raccontare le vicende della corte inglese quanto confusionario, concettoso e fumoso nel destreggiarsi tra le mortifere atmosfere del Rinascimento italiano. Si tratta, innanzitutto, di un allestimento rumorosissimo, tanto da risultare irritante: tutti saltano, cadono, gettano sedie, si spintonano con dovizia di tonfi, botte e colpi senza che se ne capisca la ragione, visto che alla fine operano tutti senza che se ne colga nessun apparente costrutto. La scena, come nel Roberto Devereux, è fissa: un’unica parete grigia semovente (che durante tutta la durata dell’opera scivolerà sempre più verso sinistra rivelando il nero dello sfondo) su cui spicca, in brillanti caratteri illuminati, il titolo dell’opera con il nome della protagonista principale: LUCREZIA BORGIA. La scelta di una gestione scenica fortemente simbolica non desta alcuno scandalo, sia chiaro, e anzi potrebbe permettere a un regista di risolvere molti problemi spinosi presenti nel libretto: come gestire, ad esempio, il problema di Gennaro che nel Prologo spensieratamente dice “Io dormirò, destatemi quando finito avrà” e resta venti minuti in scena addormentato come un baccalà mentre Maffio conclude l’Introduzione e Lucrezia esegue la sua lunga cavatina d’entrata (ancora più lunga se si inserisce – ma non è questo il caso – anche la cabaletta scritta per la Grisi)?
E come destreggiarsi con l’intero Finale, quando solo l’altezza sublime di una delle più riuscite composizioni donizettiane evita di notare come lo stesso Gennaro non brilli certamente per acume nell’impiegare così tanto tempo a capire che Lucrezia è sua madre? Loy, molto semplicemente, non si pone nemmeno il problema delle parti del libretto più problematiche (Gennaro, ad esempio, ascolta il racconto di Maffio e si mette a dormire solo dopo che tutti sono usciti e lo hanno sbeffeggiato) e, assistendo all’intero spettacolo, filtrato dalla regia video come sempre chiarissima di Brian Large, si ha come la sensazione che il regista si sia concentrato sul modo migliore di presentare due o tre idee notevoli (e sono veramente notevoli nella loro realizzazione visiva) sacrificando a queste scene non solo il costrutto logico della vicenda ma anche la necessaria preparazione al clou emotivo di ciò che si vede o, per meglio dire, dando per scontato che non potendo in nessun modo sperare di ottenere la medesima unità narrativa del Devereux abbia rinunciato all’esposizione della trama per “selezionare” alcune scene in grado di porsi come archetipi, al di là della vicenda e della connotazione storica previste dal libretto.
È molto bello, ad esempio, il momento del duetto tra Gennaro e Lucrezia, con il ragazzo che cade a terra e si ferisce, pulendosi con la camicia bianca: Lucrezia, allora, con perfetto senso materno, lo cura con un fazzoletto, rendendo evidente lo squilibrio del rapporto tra lui, immaturo che si sente attratto da una donna più grande, e lei, donna straziata che maschera il dolore con la propria tenerezza, sapendo perfettamente di godere di un momento unico e irripetibile con il figlio a cui aveva rinunciato. Esemplare, in questo senso, lo sguardo di Lucrezia che, con gentile sicurezza, allaccia e aggiusta la camicia sulle spalle di Gennaro, tanto che poche volte come in questa realizzazione di Loy l’afflato materno e filiale del duetto è emerso con altrettanta emozione: il problema, però, è in quanto si vede nelle scene che lo precedono. Per permettere a Gennaro di ferirsi il regista lo fa saltellare in continuazione dopo aver baciato la mano di Lucrezia (con sprezzo del ridicolo e dell’irritazione del pubblico) tanto più che Pavel Breslik (che vocalmente non sarebbe affatto male ma non è sicuramente questo un ruolo in cui può esprimere le sue doti migliori) è costretto, al pari degli altri interpreti della combriccola di giovani, a indossare pantaloncini neri sopra il ginocchio che non direi siano proprio belli a vedersi.
Il contrasto è evidentemente voluto, non solo con la spensieratezza del saltarello con cui cade a terra, ma anche con i gesti violenti degli amici nella scena precedente, in cui si è forse cercato di ricreare l’acerba crudeltà degli adolescenti, tanto da giustificare il desiderio di Gennaro di trovare affettuosità e riparo tra le braccia sicure di una figura materna. Ma la riuscita del duetto permette di giustificare il vero e proprio concerto per sbattimenti di piedi, tonfi, canto e orchestra con cui viene risolta la scena iniziale? Per mio conto no, senza contare che, come non è bello a vedersi Breslik con pantaloncini corti e capelli unti e ricoperti di gel, lo stesso può dirsi per tutti gli altri “gggiovani” della sua combriccola, a cominciare da Alice Coote, che già di suo non appare come la scelta ideale per Maffio Orsini, vista la sostanziale estraneità della sua organizzazione vocale a una parte così ricca di difficoltà belcantiste. Deludente, registicamente parlando, anche la risoluzione del grande concertato “Maffio Orsini, signora, son io”, in cui ognuno mima la morte del parente mentre la descrive e rinfaccia a Lucrezia (idea abbastanza inutile) salvo chiudere l’atto con ogni personaggio che si tira giù i bordi dei calzoni, diventati ora lunghi fino alla caviglia, come ad avvertire il pubblico (casomai non l’avessero capito) che la loro adolescenza è finita e ora il gruppo di “gggiovani” è diventato grande: inutilmente didascalico, ancora prima che bruttino.
Un altro esempio di questo “modus operandi” che, almeno a me, è parso abbastanza evidente nella regia di Loy lo ho trovato nella gestione della figura di Don Alfonso, che viene presentato con caratteri ironici e comici nel suo rapporto con Rustighello. Il culmine di questa caratterizzazione è nel vero e proprio numero da showman con cui Alfonso risolve la sua aria (e Rustighello è prono a terra a lucidargli le scarpe come servo sottomesso), con divertenti accessi di rabbia nell’inseguimento dell’occhio di bue che si sposta senza preavviso (la scena è diventata, durante l’aria, completamente buia) e una vera e propria crisi isterica del personaggio al momento di allacciarsi il polsino. L’idea, probabilmente, è quella di presentare un marito davvero povero di carisma, un uomo sostanzialmente “normale” e quasi pacioso (all’apertura della seconda parte del I Atto lo vediamo leggere il Corriere della Sera mentre Rustighello sfoglia la Gazzetta dello Sport… Loy deve aver una fissa con le riviste nazionali vista anche la presenza di The Sun nel Roberto Devereux) così che il suo trasformarsi in uno spietato aguzzino che tortura Gennaro ci appaia come una metamorfosi stupefacente. Il duetto tra lui e Lucrezia, a questo riguardo, è uno dei grandi momenti della regia: lei fa la disinvolta ma lui da comico, e un po’ ridicolo, diventa autenticamente terribile (e Franco Vassallo è un attore bravissimo, peccato che a tanta bravura scenica non ne corrisponda altrettanta in un canto davvero troppo forzato) e il terrore della donna si trasmette allo spettatore, a dispetto delle troppe e arbitrarie pause musicali (e a dispetto del comico involontario di Alfonso che risponde fuori scena al “Non odi pietà?” di Lucrezia).
Altro che uomo pacioso e innocuo: Alfonso non si fa mica tanti problemi a far picchiare e torturare Gennaro, così che il suo rivolgersi, prima del Terzetto “Guai se ti sfugge un moto”, a un ragazzo ammanettato e sanguinante dona un significato decisamente più sinistro all’intera scena. Ma anche in questo caso la domanda è d’obbligo: un simile effetto scenico, per quanto strepitoso nel suo far diventare una terribile macchina di morte chi ci era parso un uomo “sfigato” e privo di particolari qualità (forse Loy ha cercato un riferimento alla Banalità del male di Hannah Arendt, quando l’autrice descrive il gerarca nazista Adolf Eichmann come “un uomo semplice, la cui personalità rasentava la mediocrità”) accanto a un Rustighello debole in apparenza, sadico criminale in realtà, può essere accettato? Questo effetto, che magari si sarà pure rifatto alla rivoluzione di Victor Hugo in cui si mischiavano comico e tragico, grottesco e sublime, giustifica inoltre le vere e proprie parentesi da varietà delle scene precedenti e le autorizza? Per mio parere, e anche prescindendo dai soliti e irritanti rumori di scena, no, perché si tratta di una teatralità che sento svincolata dalla poetica e dallo stile donizettiano, siano o meno validi (e per me non lo sono, essendo anzi molto fumosi) i riferimenti alla mescolanza di stili hughiana.
Oltre a queste scene ce ne sono poi altre francamente incomprensibili: che vorrà mai significare quell’insieme di figli dei fiori, barboni e briganti posto in apertura al II Atto? E perché lo scontro tra gli sgherri del I Atto diventa una comica lite tra elettricisti travestiti? Come mai Alfonso assiste al duetto del II Atto (declinato in maniera insolitamente rabbiosa) tra Gennaro e Maffio? Il duetto in questione è chiuso, peraltro, da un’involontaria perla, visto che Rustighello intima “Nol seguite” ai suoi sgherri, ordine perentorio cui il coro risponde, giustificandosi come da libretto, “A noi s’invola” mentre il pubblico vede Gennaro che resta ostentatamente in scena… e chi dovrebbero inseguire, allora, questi malvestiti fuoriusciti dagli anni ’70? Capisco che il libretto della Borgia sia quello che è, però non si può nemmeno passare sopra alla logica e alla connessione tra ciò che si sente e ciò che si vede in questo modo così disinvolto. È bella, invece, la tensione tra Maffio e i suoi compagni durante l’esecuzione del brindisi ed è interessante anche la presenza di una Principessa Negroni vista come un’inquietante bambina (che resta in scena nonostante tutti commentino che “sbigottite ci han lasciate le dame”… ribadisco qui quanto detto sopra riguardo allo iato tra libretto e scelte registiche).
In mezzo a tutto questo la Lucrezia della Gruberová si inserisce con esiti vocalmente più che discreti nel Prologo e I Atto e decisamente interlocutori nell’ampia scena finale. Loy e la Gruberová vedono il personaggio come una donna in cerca di un’identità o, meglio, in cerca della propria identità: ecco allora che le varie anime della protagonista vengono visualizzate da una serie di look diversissimi e antitetici, volti a identificare di volta in volta la madre, la moglie, l’assassina in un gioco di rimandi continuo tra il “mito Borgia” e il “mito Gruberová”. Nel Prologo, quindi, Lucrezia appare tutta in rosa, ovviamente senza la maschera di prammatica che la dovrebbe nascondere agli sguardi dei partecipanti alla festa veneziana, questo perché essa stessa si muove e si comporta contenendo al suo interno la maschera con cui si presenta a Gennaro, per cui Maffio e gli altri non hanno bisogno di strapparle nulla nel riconoscerla come “la Borgia”. Nel I Atto, quello del teso confronto con Alfonso e del sublime terzetto dell’avvelenamento di Gennaro, la Borgia è una decisa donna in carriera, con tailleur e pantaloni e una scintillante parrucca biondo platino. Un’ulteriore metamorfosi avviene nella scena conclusiva dell’opera: la Borgia assassina si presenta vestita come un incubo e come un vampiro (il mortifero look è stato scelto anche per la copertina dell’incisione solo audio edita dalla Nightingale): lungo abito nero e parrucca di lisci capelli bianchi sciolti sulle spalle. Con effetto didascalico un po’ forzato e un po’ irritante la parrucca bianca viene levata durante il dialogo “materno” con Gennaro salvo essere rimessa al momento di lanciare su se stessa la maledizione della cabaletta conclusiva “Sul mio capo il cielo avventa / il suo strale punitor”: la Borgia assassina diventa madre, quindi non è più assassina, ma poi si rimette la parrucca perché è schiacciata dal suo stesso mito e, anziché svenire sul cadavere del figlio, esce di scena sdegnosamente, come una diva ormai troppo compresa nel suo personaggio di avvelenatrice. Personalmente trovo questa scelta talmente straniante e poco adeguata all’emotività del momento drammatico rappresentato (probabilmente è un effetto voluto… chi sa?) che non ne capisco il senso, ma magari ci può essere chi gradisce.
La scena finale, peraltro, aveva già sofferto della singolare scelta di non far morire gli amici di Gennaro per farli accomodare su delle (brutte) sedie poste con la schiena al pubblico; sulle stesse sedie si avvierà anche Gennaro cantando la sua “Madre se ognor lontano” e evocando, con il salto all’indietro con cui si allontana dal proscenio, la giovinezza e la spensieratezza del suo “saltarello” nel Prologo. Lucrezia non può che ascoltare questo addio aggrappata alla B del suo cognome staccata nel I Atto da Gennaro (in maniera tutt’altro che silenziosa, ovviamente, ma almeno in questo caso giustificata dalle dimensioni della lettera) e rimasta immobile al proscenio nel corso dell’intera opera: è come se si aggrappasse ad un’identità (quella dell’assassina, appunto) che è l’unica disponibile dopo la perdita di marito, figlio e dignità. Viene spensieratamente tagliato il recitativo con l’ingresso di Alfonso che prelude alla cabaletta finale e, dopo che il tenore ha chiuso la sua cantilena, la Gruberová attacca direttamente “Era desso il figlio mio”. La delusione dello spettatore per ciò che si vede (ma perché nessuno deve morire e tutti guardano la diva che esegue il suo finale? Mah…) non risparmia il versante musicale: anche prescindendo dall’illogicità dello spettacolo che non l’aiuta, la Gruberová (che pure nel Prologo e nel I Atto aveva avuto momenti vocali tutt’altro che disprezzabili) molto semplicemente non regge le esigenze di una parte che, soprattutto in questa scena, spinge la voce a vigorosi affondi in zona grave, risolti con suoni affocati e forzati che, a differenza di quanto era riuscita a fare nel Roberto Devereux, l’artista slovacca non riesce nemmeno a tramutare in pennellate espressive. E la cabaletta finale – con quelle colorature così imprecise, quelle note gravi così grottesche e quel sovracuto finale così urlato – è francamente una delle cose peggiori mai eseguite dalla Gruberová
Uno spettacolo strano, quindi, che non riesce a sviluppare le caratteristiche di un’artista carismatica e personale come la Gruberová in una raffigurazione plausibile di un ruolo così complesso, acuendone anzi i difetti e la sensazione di sostanziale estraneità alla parte in una lettura “a tesi” tanto didascalica quanto singolarmente povera di comunicativa e di emotività. Che il melodramma del I Ottocento sia uno dei repertori più complicati da allestire in tempi dinamici e legati all’estetica della cinematografia come i nostri è, ormai, un dato di fatto; non credo, però, che rinunciare quasi in toto al dato narrativo della vicenda (ad esempio rinunciando alla tragedia dell’avvelenamento finale come in questa Lucrezia Borgia) sia una strada che porti a qualche risultato.
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#1 di icittadiniprimaditutto il 1 dicembre 2012 - 10:44
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