Come sa chi segue il blog collaboro con piacere al quotidiano online OperaClick. Questo pezzo sull’attesa Norma interpretata da Cecilia Bartoli (al cui discutibile approccio al repertorio del primo Ottocento avevo già dedicato un post) è pubblicato, con mio grande piacere, contemporaneamente sia qui sul blog che nell’HP di OC.
“A new vision”, “The return to Bellini’s original conception”, “this iconic opera has been restored as Bellini originally intended”… sono alcune delle frasi con cui l’abilissima campagna di marketing organizzata dalla Decca ha presentato al pubblico il lancio in pompa magna della nuova registrazione in studio della belliniana Norma, ultimo approdo della rilettura del repertorio primo-ottocentesco iniziata da Cecilia Bartoli con il suo album Maria del 2007 (dedicato alla figura iconica di Maria Malibran). Cecilia Bartoli campeggia, vestita come Anna Magnani (ma che c’entra, poi?), in copertina dell’elegante cofanetto appena sfornato, al centro di una grafica aggressiva e glamour che, da lontano, fa quasi scambiare il disco con l’ultimo album di Gianna Nannini (con tutto il rispetto). Le reazioni degli appassionati sono state prevedibili: deliquio per i fans più accaniti, asprissime critiche da parte dei detrattori più agguerriti.
Che prima o poi Norma sarebbe arrivata nel repertorio della cantante romana, dopo La sonnambula e dopo l’incisione in studio di “Casta Diva”, era inevitabile: troppe dichiarazioni portavano in questo senso e la presa di ruolo, sia pur gestita con la prudenza del caso con un debutto al festival di Dortmund, rendeva ormai improcrastinabile una nuova incisione realizzata attorno all’unica artista in grado, oggi, di poter trovare i cospicui fondi necessari per un’incisione in studio che si suppone alquanto costosa, essendo stata realizzata nel corso di tre differenti sessioni (due nel 2011 e una nel 2013). Ma questa Norma è veramente una “new vision”? Francamente no: al termine dell’ascolto permangono molte perplessità, anche maggiori di quelle lasciate dalla sonnambula del 2008, circa i criteri di realizzazione.
L’aspetto più irritante è la sciatteria con cui si presenta l’importantissima novità di una nuova edizione critica della partitura, curata da Maurizio Biondi e Riccardo Minasi, incisa per la prima volta in sede ufficiale: l’articolo contenuto nel booklet con cui si commenta la creazione di questa edizione è singolarmente parco di informazioni precise. L’edizione è basata sul manoscritto autografo di Bellini, ma l’appassionato e il musicofilo avrebbero probabilmente preferito uno schema comparativo delle varianti rispetto all’edizione comunemente eseguita, sostituito dalla “solita” riflessione sul fatto che la Pasta fosse probabilmente un mezzosoprano.
Non si tace proprio su tutto, a onor del vero: si commenta ad esempio il fatto che nel cd si ascolta una nuova versione, molto più ampia, della stretta del Finale I, con un’intera sezione affidata ad Adalgisa; inoltre la ripresa del finale della Sinfonia al termine del coro “Guerra Guerra” avviene non sulla base dell’orchestrazione della Sinfonia stessa ma su un manoscritto di un copista, così commentato da Maurizio Biondi: “Noi abbiamo trovato in una copia di Milano, che probabilmente è la copia che aveva il Teatro alla Scala per la prima, l’orchestrazione originale di questa coda in maggiore. Siccome la copia è molto fedele all’originale in generale siamo quasi sicuri che è orchestrazione di Bellini.” Ma a parte questi due momenti non si spende una parola sul da capo del duetto “Ah sì, fa core abbracciami” (comunque già inciso da Joan Sutherland e Marilyn Horne nell’edizione del 1964, nata Rca e poi passata nel catalogo Decca), nulla sull’esposizione orchestrale più lunga del tema di “Teneri figli” nell’Introduzione all’Atto II e nulla sulla curiosa assenza della frase di Adalgisa “Ah mi risparmi tua pietà maggior cordoglio” nel duetto con Pollione, non incisa anche se cantata a Dortmund nel 2010 (da notare che a Dortmund si eseguiva l’edizione critica in questione, come informa il sito di Riccardo Minasi che era primo violino in quelle serate).
Sono inezie, indubbiamente, ma è dalle inezie che si riconosce la qualità di un prodotto, senza contare che sarebbe stato doveroso (e interessante) esporre con chiarezza tutti i punti di differenza e cambiamento con l’edizione tradizionale in un cd che si fregia della scritta di “newly prepared critical edition” in cui per la prima volta “Giovanni Antonini e Cecilia Bartoli reveal Norma‘s authentic pre-Romantic roots and return to Bellini’s original conception”. A essere maligni si potrebbe insinuare che il ritorno alla “original conception” di Bellini vantato dal marketing Decca alluda esclusivamente alla distribuzione che affida Adalgisa a un soprano, contrapponendola a una Norma più scura se non francamente mezzosopranile: in questo caso, senza citare la “solita” Grace Bumbry di Martina Franca (contrapposta alla lucente Adalgisa di un’incantevole Lella Cuberli) sarebbe bastato ripensare alla (allora) tanto bistrattata Norma Decca del 1988 (registrata nel 1984), che affiancava una Sutherland cinquantottenne alla fresca Adalgisa di Montserrat Caballé.
Cecilia Bartoli scrive, in una nota di presentazione (che da sola occupa il doppio del magro spazio riservato a Biondi e Minasi) la seguente dichiarazione: “Il bel canto dei nostri tempi viene spesso criticato per via del suo aspetto monotono e noioso, mentre invece era capace di toccare profondamente il lato emotivo dei contemporanei”. Che questa Norma sia la giusta strada da percorrere avrei i miei dubbi: si prenda il duetto tra Norma e Adalgisa “Oh, rimembranza” in cui si vorrebbe reintrodurre la prescrizione autografa di Andante agitato, anziché il Moderato assai delle edizioni pubblicate da Ricordi: benissimo, ma a che pro rispettare l’indicazione belliniana se poi le formule di accompagnamento risuonano secche e metronomiche, così pesantemente cadenzate da risultare quasi irritanti?
Una delle critiche che si muovono molto spesso al repertorio italiano del primo Ottocento è quella di essere musicalmente povero, dato che in orchestra vengono reiterate sempre alcune solite forme di accompagnamento: a parte il fatto che se tale repertorio fosse davvero così povero non si capirebbe come mai ne subissero il fascino musicisti del calibro di Richard Wagner e Georges Bizet (il quale, è noto, riorchestrò proprio la Norma dicendo di aver fatto un lavoro migliore di quello di Bellini anche se “non era più Norma”), va detto che in realtà proprio la regolarità di queste forme è un linguaggio che, come tutti i linguaggi, ha bisogno di essere compreso e interpretato (oltre che amato) per essere reso al meglio. Eseguito così come lo si ascolta nella direzione di Antonini non è né drammatico né intenso e si stenta a riconoscere il fascino delle melodie belliniane in questo cadenzare ossessivo e privo di poesia. Ci si vada a risentire Riccardo Muti, che pure incise Norma con una protagonista impari al compito come Jane Eaglen: il duetto in questione non si perde in inutili lentezze mentre il pathos è dato da un’orchestra che, con infinita morbidezza, sa creare la dovuta tensione e agitazione senza inutili sottolineature ritmiche (e sulle libertà ritmiche auspicate e prescritte nella prassi esecutiva del primo Ottocento si dovrebbe discutere). Esempi come questo potrebbero essere applicati all’intera lettura di Antonini, che oscilla tra pianissimi ai limiti dell’esangue e fragorosi schianti tellurici, tanto più sgradevoli quando arrivano inaspettati: sentire al riguardo non solo la Sinfonia, ma le vere e proprie sberle che accompagnano la prima scena di Oroveso con i druidi nella foresta. Dov’è quell’incessante montare di una marea (Wagner lo avrebbe chiamato Freudenrythmus) che dovrebbe caratterizzare l’ensemble finale in quest’orchestra secca e brutale, con il crescendo ridotto a un repentino passaggio dal p al ff? Dov’è l’atmosfera misteriosa e ossianica dell’apertura di sipario?
Visto che anche la registrazione de La sonnambula (l’orchestra, l’eccellente La Scintilla di Zurigo, era la medesima, allora guidata da Alessandro De Marchi) bisognerebbe dedurre che il problema sia negli strumenti originali applicati a questo repertorio. In realtà no: l’utilizzo degli strumenti d’epoca può costituire una sperimentazione interessante e legittima nell’opera italiana del primo Ottocento, ma a patto che si sappia trarre dagli strumentisti il suono giusto. Bisogna lavorarci, però: è ovvio che il suono di un’orchestra “filologica” sia più secco e vibratile delle consuete grandi compagini, ma non per questo deve essere anche sgradevole. La riprova è in un’incisione di circa quindici anni fa di un altro caposaldo del primo Romanticismo italiano: la donizettiana Lucia di Lammermoor incisa da Charles Mackerras per la Sony nel 1997 (anch’essa in un’edizione basata sull’accurata analisi del manoscritto autografo). Orchestra a ranghi ridotti con strumenti originali (l’ottima The Hanover Band), coro anch’esso ridotto, diapason a 430 Hz, come in questa Norma: anche nella lettura di Mackerras si ascoltano sonorità che suonano “diverse” all’orecchio abituato alla Lucia tradizionale, ma la sperimentazione non rinuncia alle sfumature, non rinuncia all’atmosfera espressiva (anzi, la maggiore sottolineatura dei fiati crea un clima cupo e lunare di grande effetto) e, soprattutto, non rinuncia al “canto”. La Scintilla diretta da Antonini, invece, non canta: cadenza, sottolinea, ma non canta mai. Sentire, a questo proposito, la celeberrima “Casta Diva”, con gli archi che, come avverrà qualche traccia più tardi nel già citato duetto, suonano duri e secchi. Con Muti (ma anche con Richard Bonynge, Tullio Serafin e, soprattutto, con Peter Maag, che non ebbe sciaguratamente mai modo di incidere in studio la sua splendida lettura di Norma) le formule di accompagnamento sembrano quasi la descrizione fisica della nebbia serale che sale verso la luna. Con Antonini sono solo archi che suonano (e peggio va nel Finale I, con il vero zum-pa-pa che accompagna “Oh di qual sei tu vittima”).
Non si tratta di essere laudatores temporis acti per partito preso, ma non ci si può nemmeno innamorare del nuovo e della sperimentazione in maniera acritica, ché allora si assumerebbe un atteggiamento opposto ma, in fondo, non dissimile: alla fine vale sempre la vecchia regola delle nonne, secondo cui se si decide di togliere qualcosa bisogna poi proporre qualcosa di nuovo, altrimenti si cade nella contraddizione dei Futuristi che, dopo aver ucciso il chiaro di luna, non seppero sostituirlo con niente di altrettanto evocativo. Bene, quindi, gli strumenti originali, soprattutto se con un’orchestra dalle enormi potenzialità come è la zurighese Scintilla: bene per il loro colore esotico ed evocativo, per la loro capacità di creare colori mossi e umbratili, ma a patto che non si rinunci a quella cantabilità e a quella morbidezza (e, perché no, anche a quella meraviglia) che sono, in fondo, la quintessenza di questo repertorio così affascinante ma, al tempo stesso, così difficile, sfuggente, inafferrabile e, di conseguenza, incompreso.
Ma visto che si parla di “Casta Diva” bisogna affrontare anche il capitolo relativo alle voci protagoniste di questa incisione, a partire dalla protagonista. Cecilia Bartoli sembra prendere molto sul serio il suo nuovo status di diva filologica, in grado di documentarsi e di riproporre con cognizione di causa uno stile adatto (almeno sulla carta, ché i risultati vanno in un’altra direzione) al repertorio del primo Ottocento. “Una cosa è certa: si dovrebbe adottare un approccio che sia sempre corretto sotto il profilo storico” scrive la diva nel booklet, ma mi permetto di aggiungere che la correttezza storica non può prescindere dalla storia dell’interpretazione. E allora fa bene la Bartoli a notare che “la nostra percezione dell’interpretazione e del suono sia stata influenzata dalle conquiste tecnologiche e dall’estetica del ventesimo secolo e, naturalmente, dalle incisioni, seppure a modo loro esemplari, realizzate da grandi artisti del recente passato”, ma tale percezione è un’arma a doppio taglio: il ritorno all’espressività del primo Ottocento non può (e non potrà mai) prescindere dalla storia dell’interpretazione e del gusto.
Le cronache del XIX secolo, infatti, riportano notizie di come i cantanti sfruttassero a fini espressivi disuguaglianze di registro e perfino elementi “veristi” come singhiozzi e pianti, ma oggi è impensabile tentare di riproporre questi elementi, anche se spesso sono espressamente previsti dall’autore. Ci provò, anni fa, Dimitra Theodossiou, cercando di realizzare, in una Lucrezia Borgia a Bergamo, quanto Donizetti prescriveva in una lettera in cui affermava che nel finale Lucrezia “s’aggira forsennata per la scena, si strappa i capegli, batte ad ogni porta chiusa per ordine suo, e finalmente s’apre la gran porta”. Anche prescindendo dallo scarso aplomb della performance vocale fu una scelta ridicola per un pubblico che, dopo il passaggio del tardo Ottocento e del Verismo, non poteva accettare simili eccessi in un’opera del 1833, oltretutto cantata maluccio dal soprano greco: il risultato furono i fischi.
La Bartoli non urla e non piange, ma ascoltando il recitativo in cui si accusa di fronte a Pollione, Oroveso e i druidi mi chiedo se quelle consonanti così martellate, quell’aggredire le parole con enfasi fin troppo naturalistica sia un qualcosa di consono alla scrittura belliniana; mi chiedo se la frase “Amo in un punto ed odio i figli miei” debba essere detta con questa sottolineatura; mi chiedo se sia “filologico” il suono affocato che si sente al “troppo tormentoso, troppo orrendo è un tal dubbio”. Mi chiedo se questa coloratura così rapida e metronomica sia simile a quella della Pasta, che doveva ispirare a Bellini le arditissime elaborazioni di “Ah bello a me ritorna”. Mi chiedo che cosa guadagni “Casta Diva” (che secondo il momento scenico sarebbe una preghiera pubblica all’interno di un rito religioso) da un’esecuzione così miniaturizzata, in cui peraltro è bella l’idea di inserire delle variazioni nella seconda strofa (meno belle sono le variazioni, però). Mi chiedo se questo fraseggio così manierato (si ascolti l’inizio della scena al tempio di Irminsul) possa esaurire le possibilità di un personaggio così complesso da ispirare a Bellini il termine “enciclopedico” per descriverlo.
Mi chiedo, soprattutto, se sia corretto parlare di filologia e di interpretazione secondo “the Bellini’s original conception” di fronte a questa lettura, che non è e non può essere definitiva, tanto più se si tengono presente i limiti dell’orchestra che accompagna la Bartoli. Resta la grande musicalità, ma non mi pare che possa bastare per un ruolo così gigantesco, tanto più se accompagnata a un’emissione francamente discutibile nelle sottolineate e plateali disuguaglianze di registro con cui la Bartoli si vorrebbe richiamare allo stile delle grandi dive come la Pasta e, ancora una volta, la Malibran.
Accanto alla diva romana delude moltissimo John Osborn, dal fraseggio spesso sbagliato (“Svanir le voci” sembra detto da Paolino nel matrimonio segreto) e dall’emissione indurita. Il ruolo sarà anche ricondotto da Osborn alla vocalità originale del creatore Domenico Donzelli (anche se ho i miei dubbi) ma, come la Bartoli si chiede se Corelli e Del Monaco sarebbero stati in grado di eseguire il Conte di Almaviva e Don Ramiro, io mi domando se la presenza di voci chiare ed esili (quindi francamente fuori parte) per anni impiegate in queste parti rossiniane non abbia sostanzialmente falsato la nostra percezione di questi due ruoli, facendoceli considerare più leggeri di quanto non siano (Almaviva, poi, è una parte decisamente centrale), giustificando quindi un accento da opere di mezzo carattere anche in una parte seria come quella di Pollione. Sta di fatto che Osborn, tenore in grado di affrontare con nonchalance l’Arnold del Guillaume Tell e di essere un plausibilissimo Arturo nei Puritani, paga lo stress vocale di alternare parti da tenore contraltino e baritenore, come dimostra questo deludente Pollione, senza contare che, filologia per filologia, mi sarei almeno aspettato il falsettone per la variante al do acuto di “Meco all’altar di Venere”.
Dal vivo (e nelle prossime recite salisburghesi) Adalgisa è stata e sarà la messicana Rebeca Olvera, educata voce di soprano ultraleggero (di fatto una soubrette), sostituita nell’incisione in studio da una ritrovata Sumi Jo, senza che si capiscano le ragioni di questo cambio se non nel maggiore appeal commerciale della Jo. Il soprano orientale, in ogni caso, cerca di fraseggiare con garbo e canta con discreta correttezza, pur con i limiti di uno strumento troppo esile e di una voce che si faticherebbe a vedere impegnata nelle parti di Elvira dei Puritani, Elena del Marin Faliero e Norina del Don Pasquale, tutte scritte per quella Giulia Grisi che creò la parte e che, peraltro, non avrebbe disdegnato di approdare anche al ruolo di Norma stessa. L’unica tra le grandi eredi novecentesche di Giulia Grisi ad aver affrontato la parte di Adalgisa ed essere stata al contempo una grande Norma resta quindi Montserrat Caballé, il cui esperimento nei panni dell’allieva cadetta si conferma, a distanza di anni, un esempio di filologia vera applicata alla prassi esecutiva del primo Ottocento.
Bravo Michele Pertusi, Oroveso sufficientemente autorevole, ma riuscita non bene la registrazione della Decca, in cui non solo sono presenti evidenti cesure, ma risulta fin troppo sottolineato il lavoro svolto sugli equilibri sonori.
Qui un’intervista a Cecilia Bartoli sull’allestimento di Norma previsto a Salisburgo.
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#1 di mozart2006 il 1 giugno 2013 - 14:09
Bell’ articolo, con osservazioni molto dettagliate. Per me invece su questa pura operazione di marketing è inutile spendere molte parole. La Bartoli, molto semplicemente, canta come ci si poteva aspettare. A mio avviso un filino meno disastrosa rispetto alla Sonnambula, ma il suo modo di cantare, oltre che tecnicamente fallosissimo, produce un effetto di estraneità pari a quello che proverei ascoltando Shania Twain o Pink che cantassero “Auf dem Wasser zu singen” oppure “Widmung”.
Ma l’ aspetto davvero da querela è costituito dalla bandistica, ridicola, spernacchiante direzione di Antonini: tempi assurdi, dinamiche comiche, colori inesistenti. Una sintesi del peggior stile baroccaro, per giunta applicato a un’ opera che a ciò è del tutto estranea.
#2 di Gabriele Cesaretti il 1 giugno 2013 - 19:42
Grazie. L’ascolto, in effetti, è stato parecchio spiazzante!
#3 di Winckelmann il 1 giugno 2013 - 19:09
Prima di tutto i complimenti. Finalmente una recensione dettagliata, argomentata ed equilibrata come non se ne leggono quasi più.
Poi: di questa “Norma” ho ascoltato soltanto Casta diva con la cabaletta che segue; non voglio quindi dare giudizi estesi a tutta l’operazione ma non posso non dire che limitatamente a quei dieci minuti l’esecuzione mi è sembrata disarmante. I discorsetti della Bartoli sulle “verità storiche” che solo lei crede di conoscere e che per mezzo delle sue letture dovrebbero esserci rivelate hanno da sempre, con me, lasciato il tempo che trovavano. Ma questa specie di Nicola Arigliano in gonnella che con un microfono ficcato in gola intona la preghiera di una sacerdotessa neoclassica mi ha fatto veramente cadere le braccia.
Per chiudere mi chiedo: comprendo per questo e per i dischi precedenti l’operazione commerciale della Decca e tutto lo sforzo produttivo che essa comporta. Ma avete mai fatto caso che tre mesi dopo l’uscita e l’iperstrombazzamento mediatico i dischi della Ceci passano immediatamente negli scaffali delle offerte?
PS: anche a sezione di Adalgisa nel finale del primo atto la cantava già la Horne nel ’64.
#4 di Gabriele Cesaretti il 1 giugno 2013 - 19:43
Grazie mille. Non alludo a “Oh qual traspare orribile” (eseguito anche dalla Caballé nel 1984) ma a una nuova sezione di Adalgisa in “Vanne si mi lascia indegno” che non mi risulta essere mai stata incisa.
Ciao e grazie ancora.
#5 di Winckelmann il 1 giugno 2013 - 20:26
Un’altra? Quel terzetto finirà per durare come i Maestri Cantori…
#6 di Gabriele Cesaretti il 5 giugno 2013 - 18:58
Io nel complesso ho trovato questa “nuova” stesura ridondante e eccessiva, ma magari con un’altra interpretazione potrebbe funzionare.
#7 di Winckelmann il 5 giugno 2013 - 19:00
Magari era stato Bellini stesso ad eliminarla?
#8 di Gabriele Cesaretti il 5 giugno 2013 - 19:14
Le note di copertina non forniscono mica informazioni in merito. Io so che una parte del terzetto pare venne cassata perché la Pasta era gelosa della Grisi: quindi non solo “Oh qual traspare orribile” ma anche questi passaggi caddero, ma vado di deduzione. Lo scarsissimo spazio riservato ai curatori dell’edizione critica è l’aspetto che meno mi è piaciuto di questo disco.
#9 di Contrabbassista pazzo il 5 giugno 2013 - 21:37
La copertina sembra il manifesto di un film western (ma più in basso di “Mission”, a livello di artwork, non si poteva andare)… sull’interpretazione non mi pronuncio, non avendola ascoltata e non essendone in grado. Ottima recensione comunque, anche se come sai a me la Bartoli non dispiace, ma confesso che ho avuto i brividi al pensiero di cosa avresti scritto se l’avesse interpretata la povera Vivica… 😀
#10 di Gabriele Cesaretti il 7 giugno 2013 - 14:31
Ma voglio sperare che la bella Vivica si tenga ben lontana da Norma ^_^