
Mica facile allestire Rossini. Ne sanno qualcosa a Pesaro dove, al rigore filologico dell’esecuzione musicale, si è sempre affiancata la via dell’audace sperimentazione registica, lasciando all’estro di uomini di teatro la possibilità di inventare e reinventare una drammaturgia particolare e raffinatissima come quella di Gioachino Rossini. Molti allestimenti pesaresi hanno fatto la storia del teatro rossiniano, mentre altri sono presto caduti nel dimenticatoio, ma resta un dato di fatto che il Rof ha avuto tra i suoi meriti anche quello di chiarire la presenza della regia teatrale come più di un semplice complemento visivo all’esecuzione musicale, ma una vera e propria interpretazione della partitura, in grado di mescolare riferimenti all’immaginario rossiniano rileggendoli secondo la cultura, lo stile e le abitudini della contemporaneità. Il Rossini Opera Festival 2013, che presentava due nuovi spettacoli di beniamini del festival come Davide Livermore e Graham Vick accanto alla ripresa di un classico di Jean-Pierre Ponnelle, ha offerto quindi il destro per alcune considerazioni, senza alcuna pretesa di esaustività, sulle problematiche relative all’allestimento dell’opera rossiniana di oggi.
Il teatro di Rossini presenta alcune problematiche difficili da risolvere: è un teatro dove l’inesauribile pulsione ritmica della musica rossiniana si affianca, spesso, a una vicenda scenica in cui lo scorrere degli eventi si isola in ampi momenti in cui la trama, invece, non progredisce. Inoltre bisogna considerare l’importanza storica del teatro comico rossiniano nella nascita del comico “moderno” (di fatto L’Italiana in Algeri è il «prototipo dell’opera comica moderna», secondo una felice definizione di Alberto Zedda), con il regista chiamato a distinguere a dovere i momenti in cui il «comique absolu» lascia spazio al «comique significatif» oltre che obbligato a confrontarsi con lo spirito dell’opera rossiniana (che, in fondo, è molto più importante della lettera). Nel caso specifico dell’Italiana in Algeri ci troviamo di fronte a un’opera in cui lo spirito della stendhaliana «follia organizzata» è portato al massimo grado: in un’Algeri di fantasia, esotica e surreale, una donna si permette comportamenti considerati disdicevoli (oggi li definiremmo proto femministi) che, se il librettista Angelo Anelli avesse scelto un’ambientazione meno astratta, sarebbero stati considerati decisamente immorali, comunque impossibili da attuare nella società del XIX secolo. La particolare situazione di Isabella, prigioniera che non si fa nessun problema a esibire una bellezza prorompente, usandola per i propri scopi, risponde invece al vecchio adagio secondo cui il fine giustifica i mezzi: Isabella è campionessa di patriottiche virtù perché usa la sua bellezza e non nonostante il suo comportamento sostanzialmente immorale, indipendente e non sottomessa all’autorità maschile. I punti di partenza della regia di Davide Livermore rispettavano con assoluta precisione queste caratteristiche fondamentali del capolavoro rossiniano: l’Algeri della fantasia di Anelli e Rossini diventava un “non luogo” orientale ricco di pozzi di petrolio e soldi, l’immoralità di Isabella si giustificava con il suo diventare una sexy spia e il senso della follia e del fantastico veniva garantito dalla decisione di improntare lo spettacolo a un’estetica riconducibile a quella, favolosa e surreale, dei film con protagonista lo scombiccherato detective Austin Powers, con chiari riferimenti ai coloratissimi e spumeggianti anni ‘70. Tutto bene, quindi, con premesse decisamente incoraggianti e affascinanti, ma poi è stata la regia vera e propria a sprecare un simile patrimonio di immagini e rimandi.
Il primo problema che un regista rossiniano è chiamato a porsi è quello del ritmo: la musica di Rossini trae buona parte del suo fascino dalla sua ritmica continua, che richiede agli esecutori musicali una sensibilità fuori dal comune perché, se ingabbiata in rigide e metronomiche scansioni, perde gran parte del suo charme. Ai registi il compito di affrontare il problema di come rendere questa continua pulsione vitalistica e orgiastica senza dare l’impressione che la scena rincorra l’orchestra; Livermore ha scelto la strada della danza: spesso (troppo spesso) comparse, coro e protagonisti cominciavano a ballare, con il risultato di creare confusione e caos (e la follia, in Rossini, è sempre “organizzata”) oltre a essere, francamente, non troppo belli da vedere.
Troppe, poi, le controscene, spesso ripetute tali e quali nel corso della serata ingenerando noia: un altro problema che ogni regista rossiniano è chiamato ad affrontare è, infatti, quello delle ripetizioni, non solo dei “da capo”, ma anche delle più piccole cellule melodiche che in Rossini sovente si reiterano, chiamando interpreti e musicisti a sacrosante e fantasiose variazioni. È allora divertente assistere, durante il duetto “Se inclinassi a prender moglie” a una finta giuria di Miss composta da eunuchi, ancelle e Haly che danno voti bassissimi alla bella Zulma per premiare con un plebiscito di “10” la goffa e sgraziata Elvira per convincere Lindoro al matrimonio, ma se al momento del da capo la scenetta si ripresenta identica l’effetto è quello di una barzelletta ascoltata due volte che ormai non fa più ridere. Anche il sapidissimo duetto “Ai capricci della sorte” è stato sprecato con inutili scenette (tra cui un’improbabile doccia della protagonista) quando sarebbe bastato leggere i tempi comici della musica per gestire al meglio il rapporto tra Taddeo e Isabella. La regia di Dario Fo era assai movimentata ma, anche prescindendo dal fatto che sembrava improntata a rigido rigore calvinista se paragonata a questa di Livermore, aveva un’altra sensibilità musicale nel gestire le singole scene riuscendo, soprattutto, a capire quando il ritmo della commedia necessitasse di un rallentamento o di una pausa per poi ripartire con lo sprint dalla scena successiva. Livermore, molto semplicemente, ha giocato d’accumulo, col risultato di provocare un senso di saturazione nello spettatore: la parentesi sensuale del “Per lui che adoro” è stata sprecata da una doccia lesbo di Isabella, con tanto di saffico bacio con una delle ancelle; durante l’intero rondò “Pensa alla patria” Taddeo reggeva un’antenna che perdeva continuamente il segnale al momento di trasmettere gli impegni dell’Italia per la cultura (e perché inserire questo messaggio in questo spettacolo, poi…) e si arrivava alle scene finali stanchi e annoiati. Annoiati perché la ripetizione delle gag diventava prevedibile, quindi noiosa, e stanchi perché la continua tensione comica ricercata dall’accumulo di scene su scene (inutile la figura dei due turisti italiani, peraltro onnipresenti) non poteva essere mantenuta per oltre due ore d’opera, rinunciando ai necessari momenti di pausa, senza ingenerare una sensazione simile a quella delle pietanze troppo condite, in cui sono presenti talmente tante spezie da risultare impossibile coglierne il sapore.
A questo bisogna aggiungere la delusione di una bacchetta scialba e di un cast lasciato in buona parte solo a districarsi tra difficoltà vocali e over-acting scenico per capire come potesse risultare strana questa Italiana in Algeri.
Problemi simili ha accusato la nuova, attesissima, produzione del Guillaume Tell con regia di Graham Vick e direzione musicale di Michele Mariotti. Guillaume Tell è un’opera, innanzitutto, estremamente lunga e statica, in cui spesso l’azione si blocca per lasciare spazio alla Natura, un vero grande personaggio, che con i suoi suoni (i ranz de vaches) e le sue suggestioni non è solo un semplice sfondo per l’azione dei protagonisti, ma assurge a ruolo di assoluta protagonista dell’opera. Rinunciare alla Natura allestendo il Tell può essere un azzardo, ma è una scelta legittima: il problema è che, anche prescindendo dal fatto che la Natura dovrebbe e potrebbe sentirsi in orchestra (e si sentiva solo a tratti, dato che Michele Mariotti è un direttore molto bravo ma, a mio parere, non così bravo da avere oggi quella maturità indispensabile a creare un unico arco narrativo in una narrazione parsa invece un po’ frammentata) se si decide di togliere qualcosa è necessario sostituire quanto tolto con qualcos’altro di pari efficacia. Togliere e basta equivale a condannarsi al gap in cui incorsero i Futuristi, che decisero di “uccidere” il chiaro di luna senza trovare nulla di altrettanto suggestivo da proporre: nella regia di Vick l’opera era ambientata in un’ampia sala bianca, su cui troneggiava la frase EX TERRA OMNIA (Tutte le cose provengono dalla terra). La terra è quella che il popolo, vessato da austriaci che hanno rinunciato al loro rapporto con la Natura, sparge a terra durante il laico rito nunziale del I Atto; gli oppressi hanno mantenuto un contatto con la grande madre terra, gli oppressori inscenano una finta Natura a loro uso e costumo (il falso spot pubblicitario girato sullo sfondo della canzone del pescatore, i cavalli in vetroresina del II Atto) che viene smantellata dai rivoltosi perché falsa. Per quanto possa essere stimolante, però, una simile impostazione non reggeva, molto semplicemente, l’abnorme durata di quest’opera colossale, perdendo quasi da subito la sua efficacia: probabilmente un Tell con tagli avrebbe garantito una tensione teatrale maggiore, ma l’esecuzione integrale dell’opera (anche se con l’eliminazione, peraltro autografa, di alcuni passi di danza) ha reso l’allestimento statico, annacquandone l’effetto di denuncia sociale.
Ci sono state molte polemiche, che da sole bastano a qualificare chi le ha lanciate, circa il pugno chiuso su sfondo rosso che costituiva il siparietto dell’opera o circa il Finale II, quando i rivoltosi svizzeri hanno chiuso la scena della congiura alzando il bracco sinistro avvolto in bandiere rosse: si è trattato di un falso problema, dato che Vick non ha politicizzato assolutamente nulla, ma ha semplicemente donato un’identità riconoscibile (e storica) a rivoltosi spesso rappresentati in maniera generica. Il problema non sono stati, quindi, i pugni chiusi di Tell e Arnold: il problema della regia di Vick è che non ha affrontato, né tantomeno risolto, gli snodi fondamentali alla base dell’opera, a cominciare dal rapporto dei protagonisti tra loro e con la Natura (che non può ridursi semplicemente al filmino in stile Mulino Bianco che Arnold osserva durante l’aria del IV Atto). Il Mosé in Egitto del 2011 (criticatissimo) individuava con precisione il concetto di amore interrazziale sullo sfondo di uno scontro di culture e civiltà che forma la base dell’opera rossiniana, declinandolo in un’ambientazione contemporanea e civile: uno spettacolo molto forte e criticabile, ma in cui l’obiettivo da raggiungere era preciso e individuato con chiarezza. Quale fosse, invece, la chiave di lettura scelta da Vick in questo Tell non è molto chiaro e i cantanti venivano quasi sempre lasciati a recitare il “solito” Guillaume Tell di tradizione, già visto in tanti altri spettacoli francamente molto più belli: lo spettacolo soffriva, insomma, del paradosso di una regia sostanzialmente tradizionale calata in un’ambientazione algida e astratta che non donava né suggeriva alcun tipo di vantaggio a un gioco scenico prevedibile e privo di particolari idee. Non sono mancati, certo, singoli momenti suggestivi: l’apertura di sipario, sul popolo costretto all’ossessiva pulizia del palcoscenico, è parsa folgorante così come molto cruda è stata la scena in cui Melchtal è picchiato a morte e poi appeso a monito per tutti gli altri. Ma, al pari della direzione musicale di Mariotti, si trattava di singoli momenti che non sono sembrati parte di un discorso unitario, riconoscibile e coeso. A questo si aggiunga che il cast vocale, benché possa essere considerato il migliore (o tra i migliori) disponibili oggi, era comunque in parte sottodimensionato alle esigenze delle rispettive parti, a cominciare dal superdivo Juan Diego Flórez, di cui si è ammirato il professionismo, la preparazione musicale e il coraggio. La sua, tuttavia, non è la voce di Arnold, perché troppo leggera, priva di quel denso registro centrale (che il primo interprete, Nourrit, doveva avere solidissimo) su cui dovrebbero innestarsi le folgoranti ascese all’acuto: la voce di Lindoro, insomma, solo a fatica può diventare quella di Arnold, ma si sarebbe comunque potuto sfruttare questo supposto “difetto” per creare un personaggio più fragile e umano, giovane adolescente schiacciato da eventi più grandi di lui. Alle prese con una regia d’impatto tradizionale, a dispetto dell’ambientazione, i limiti di Flórez sono parsi invece più evidenti e sottolineati.
Il terzo allestimento del Rof 2013 era la ripresa dell’Occasione fa il Ladro targata Jean-Pierre Ponnelle (allestita per la prima volta nel 1987) a cura di Sonja Frisell. Giusto perpetuare la memoria di uno dei più bei spettacoli di sempre mai visti a Pesaro, un allestimento che nell’estrema semplicità di mezzi utilizzati riesce ancora oggi a coniugare il senso del surreale e del fantastico (l’enorme valigia da cui Martino estrae tutti i protagonisti dell’opera durante l’Overture) con il perfetto senso della musica e del teatro che è sempre stato tra le caratteristiche più felici di Ponnelle. Un allestimento, però, non è affatto un oggetto statico ma vive nella recitazione di chi mette faccia e corpo sul palcoscenico, quindi è impensabile una ripresa (come è stata questa della Frisell) in cui non vengano sfruttate le caratteristiche di chi va in scena cercando un impossibile ritorno allo spettacolo “com’era nel 1987”: di fatto due animali da palcoscenico come Paolo Bordogna e Roberto De Candia sono sembrati poco a loro agio e quasi frenati, mentre gli altri giovani della compagnia recitavano in modo fin troppo scolastico (inadeguato a una farsa). Dal podio, peraltro, la giovane cinese Yi-Chen Lin ha rivelato un talento di musicista sensazionale, ma poco aplomb teatrale, col risultato di raggelare il ritmo comico, già ingessato di suo nella regia: anche le riprese di spettacoli collaudati, insomma, impongono sensibilità e adattamento alla compagnia, tanto più se avvengono a parecchia distanza temporale dalla nascita dello spettacolo. L’alternativa è far sembrare lo spettacolo “vecchio” (come qualcuno ha detto) quando in realtà vecchio non lo sarebbe affatto.
Il Rossini Opera Festival ha fatto molto, dal punto di vista della regia teatrale, nel corso della sua storia: nel 2007, ad esempio, Damiano Michieletto riuscì a risolvere (almeno dal punto di vista scenico) il gap della gazza ladra, opera la cui immensa popolarità ottocentesca stentiamo oggi a comprendere perché disabituati al mélage di generi tipico dell’opera semiseria. Ora che, con l’Aureliano in Palmira previsto nel 2014 (la XXXV edizione del Festival), il Rof finalmente termina l’allestimento dell’intero catalogo lirico rossiniano (mancherebbero all’appello solo i vari “pasticci”, più o meno autografi, Eduardo e Cristina e Ivanhoe, senza dimenticare Robert Bruce) il compito del festival non si esaurisce, ma è chiamato ancora a una volta a cercare di far dialogare Rossini con il nostro presente, ritornando alle opere già messe in scena e cercandone nuove letture e potenzialità, tenendo sempre presente quelle peculiarità compositive che fanno del pesarese uno dei compositori più misteriosi di sempre, a dispetto del vacuo mito di ottimistica solarità che lo accompagna.
Le foto del Rossini Opera Festival 2013 sono dello Studio Amati e Bacciardi
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