Stella di Napoli – Joyce DiDonato

Joyce DiDonato Stella di NapoliMi è successa una cosa abbastanza divertente al primo ascolto di Stella di Napoli, la recente fatica discografica di Joyce DiDonato edita dalla Warner Classics: la prima traccia (ascoltata su Youtube, prima dell’arrivo del cd, quindi senza il libretto sotto mano), “Ove t’aggiri o barbaro”, mi è sembrata una brillante pagina da una sconosciuta opera comica di Pacini. Cercando qualche informazione su Stella di Napoli mi sono accorto, non senza un po’ di stupore, trattarsi invece di un’opera seria. Basterebbe questo a riassumere le mie opinioni su questo disco, che attendevo con discreto interesse, non foss’altro che per la presenza di alcune arie da opere misconosciute del primo Ottocento italiano. La DiDonato è un’artista carismatica, una persona intelligente e una vera forza della natura, ma affronta queste pagine con una voce che, sostanzialmente, è quella di una cantante di mezzo carattere (e non di una primadonna tragica) senza nemmeno che l’accento riesca a compensare i limiti dello strumento naturale, cosa che ad esempio riusciva a una Beverly Sills. Ecco allora le motivazioni del misunderstanding sul “genere” della prima track del disco che, sia detto en passant, è solo la cabaletta di una più ampia scena solista che, trattandosi dell’opera che dà il titolo all’intero album, mi sarei aspettato almeno incisa per intero. Il problema è che non c’è un brano in tutto il disco in cui l’accento sia completamente adeguato: il grande finale di Saffo, altra opera paciniana, è privo di quella allure tragica che dovrebbe costituire il fulcro dell’ampia scena (che peraltro chiamava in causa anche le potenzialità dell’attrice, viste le accurate didascalie previste anche in partitura, e che quindi molto si aspetta dall’accento e dalle capacità interpretative dell’interprete di turno) e anche la scena finale di Zelmira, dopo un attacco di “Riedi il soglio” promettente, non mantiene lo stesso afflato nobile per l’intero brano.

Meglio vanno le cose con le arie tratte da opere semiserie, come è il caso del sonnambulo del lucchese Carlo Valentini, che nel 1834 compose l’opera omonima sullo stesso libretto semiserio già messo in musica dieci anni prima da Michele Carafa: l’entrata di Adele (peraltro possibile aggiunta per la declinazione di Valentini, essendo diversa in Carafa) è una di quelle melodie tipicamente italiane e tipicamente romantiche in cui il lamento e i gemiti dell’uomo amato vengono paragonati al mormorìo delle onde e al gemito del vento, mentre il profluvio di stelle in cielo corrisponde alla visione, in ognuna di esse, del volto del compagno desiderato. La melodia non è indimenticabile ma in mano a un’artista di rango potrebbe diventare un brano decisamente interessante e, comunque, godibile: in questo caso l’accento della DiDonato è più adeguato ma lo stile, che indulge in note fisse e sparsi spoggiamenti, tenta un’impossibile conciliazione tra certa prassi “baroccara” e l’attenzione alla vocalità espressiva del Romanticismo, di fatto con un’esecuzione poco interessante perché poco incline a rendere palpabile la magia di questo soffuso notturno italiano. Considerazioni simili possono applicarsi anche all’aria di Nelly dal belliniano Adelson e Salvini e all’ampia scena di Lucia dalle nozze di Lammermoor di Carafa. Due parole in più meritano, a mio avviso, i brani tratti da Maria Stuarda di Gaetano Donizetti e da I Capuleti ed i Montecchi di Bellini. Nel primo caso (si incide la prima parte della scena finale, fino alla Preghiera “Deh tu di un’umile”) si tratta di una presa di ruolo relativamente recente da parte della DiDonato, che sta trionfando nelle vesti della sfortunata e ambiziosa regina scozzese nei teatri di tutto il mondo: si sente l’esperienza data dall’aver affrontato il ruolo in teatro, con un accento che (fatti salvi i limiti dello strumento) non è ancora quello “tragico” che servirebbe ma sicuramente risulta più adatto. Mi chiedo però a che pro indulgere in suoni così fissi e sgradevoli nei recitativi, mi chiedo a che serva, da parte del direttore Riccardo Minasi, sottolineare (nelle peraltro interessanti note di copertina) la presenza di figurazioni nella composizione che richiamano i numeri sette e quattro, come i Sette Dolori della Vergine o l’immagine musicale della croce così come era diffusa tra i compositori nordici del XVII secolo, se il coro canta “Il duol ci spezza il cor” con un ritmo così villereccio da elisir d’amore. Ne I Capuleti ed i Montecchi (si esegue la scena della tomba con la sublime “Deh tu bell’anima”) la DiDonato sceglie poi emissioni di petto francamente eccessive e che mi pare ben poco abbiano a che fare con lo stile di questa bellissima pagina: le sonorità trovate per “Deserto in terra, abbandonato io sono” non mi sembrano affatto dissimili da quelle sfoggiate da Agnes Baltsa nel celebre disco EMI diretto da Riccardo Muti e nelle recite milanesi degli anni ’80, con la differenza che la Baltsa venne contestata e riprovata praticamente da tutti perché “verista” e non considerata un modello di stile. Per me, che pure ho ammirato la DiDonato e l’ho applaudita freneticamente in molte esecuzioni degli anni passati, un disco che è una gran delusione. Certo, la fama della DiDonato e il suo interesse per questo repertorio (incide anche – ed è la pagina migliore del cd – la bella romanza di un’opera a me abbastanza cara, ovvero La vestale di Saverio Mercadante) possono contribuire a una sua progressiva riscoperta, perché è noto che le opere tornano in repertorio se c’è un artista che le canta, ma credo che anche in questo caso possano valere le condizioni già espresse per l’album rossiniano di Julia Lezhneva: un’esecuzione di questo tipo aiuta la causa o piuttosto non alimenta quell’incomprensione nei confronti di un repertorio considerato “da organetto” e già guardato con sussiegosa disattenzione? Temo purtroppo sia valida la seconda ipotesi.

Pacini – Stella di Napoli, Part I: “Ove t’aggiri, o barbaro”
Bellini – Adelson e Salvini, Act 1: “Dopo l’oscuro nembo”
Carafa – Le nozze di Lammermoor, Act 2: “L’amica ancor non torna… Oh, di sorte crudel”
Rossini – Zelmira, Act 2: “Riedi al soglio”
Mercadante – La vestale, Act 2: “Se fino al cielo ascendere”
Rossini – Elisabetta al castello di Kenilworth, Act 3: “Par che mi dica ancora”
Bellini – I Capuleti e i Montecchi, Act 2: “Tu sola, o mia Giulietta… Deh! tu, bell’anima”
Valentini – Il sonnambulo, Act 1: “Lasciami… Se il mar sommesso mormora”
Donizetti – Maria Stuarda, Act 3: “Io vi rivedo alfin… Deh! Tu di un’umile preghiera”
Pacini – Saffo, Act 3: “Flutto che muggi… Teco dall’are pronube… L’ama ognor qual io l’amai”

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