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In nome di Maria: Giovanna d’Arco di Giuseppe Verdi

Ogni melomane, accanto ai grandi capolavori, ha delle opere (che il più delle volte capolavori non sono) alle quali è particolarmente legato per le più svariate ragioni: nel mio caso uno di questi lavori è la Giovanna D’Arco che Giuseppe Verdi compose durante i suoi anni di galera e che debuttò al Teatro alla Scala di Milano il 15 febbraio 1845. Opera considerata (non del tutto a torto a dire il vero) come minore all’interno del repertorio verdiano minore per eccellenza (ovvero la produzione compresa tra l’affermazione del Nabucco e il trionfo del Rigoletto) la Giovanna D’Arco è in realtà un lavoro molto interessante per svariate ragioni, sia storiche che estetiche:

  • È in questa partitura che Verdi inizia a sperimentare la resa del linguaggio ultraterreno, necessario nei cori degli angeli e dei demoni, ricercando l’effetto grottesco (mediato dallo stile di Victor Hugo) che poi porterà a miglior compimento nelle pagine affidate alle streghe nel Macbeth;
  • è con quest’opera che si chiude (almeno fino alla Forza del destino appositamente revisionata nel 1869) il ciclo dei debutti verdiani al Teatro alla Scala di Milano;
  • si tratta di uno dei pochissimi lavori (l’altro, come nota l’autore dell’edizione critica di Giovanna D’Arco Alberto Rizzuti, è I lombardi alla prima crociata) in cui la figura della Vergine Maria viene identificata con istanze patriottiche e nazionaliste: Giovanna combatte per la sua patria oppressa dall’invasore straniero (chiara metafora dell’Italia gemente sotto il giogo dell’invasore austriaco) e per questa santa missione le viene concesso un aiuto ultraterreno. La censura, come vedremo, si rivelò particolarmente attenta a modificare e smussare tutti i riferimenti ad una possibile legittimazione divina delle istanze nazionaliste della protagonista, tanto che solo la recente edizione critica ha permesso al libretto di Solera di essere eseguito nella sua veste originaria, dato che i cambiamenti richiesti dai censori avevano ulteriormente ingoffito un testo che già di suo aveva non pochi problemi di verosimiglianza;
  • La vicenda consentiva a Verdi cercare un equilibrio tra la coralità di opere come Nabucco e Lombardi alla prima crociata e l’indagine dei tormenti privati e spirituali della sua protagonista.

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Gothic Tales – 4 – Ernani di Giuseppe Verdi

Se il Nabucco fu, per Giuseppe Verdi, l’opera dell’affermazione l’Ernani si pose come il lavoro che ne consolidò il successo, diffondendosi a macchia d’olio in tutta Italia dopo il debutto del 9 marzo 1844 al Teatro La Fenice di Venezia (peraltro era la prima volta che Verdi componeva per un teatro che non fosse la Scala). Merito della travolgente piena melodica della musica verdiana, merito delle atmosfere vagamente risorgimentali e barricadere che la resero subito gradita al pubblico ma merito, anche, delle situazioni lugubri e goticheggianti di una storia che, al pari di molti film horror dei nostri tempi, vede compiersi la catastrofe finale nel momento in cui tutto sembra felicemente risolto. Ricordava il grande critico ottocentesco Filippo Filippi, nella “Perseveranza” del 31 gennaio 1881, che buona parte del successo del lavoro, negli anni subito seguenti il debutto, era da attribuirsi anche al fascino inquietante e sinistro dato dal suono del corno che ricorda a Ernani la necessità di compiere il suo suicidio d’onore: “La gente, prima di coricarsi, guardava intorno per paura che ci fosse Don Gomez De Silva col suo corno fatale, pronto a suonare durante la notte”. Il commento viene riportato in un saggio del 1951 da Emilio Radius, che chiosa giustamente: “A parte il valore della musica, impressioni simili ne fecero sul pubblico dei nostri tempi soltanto certi film muti che giovavano della suggestione di una nuova arte o di un nuovo artificio”. Era forse perché consapevoli dell’effetto “estremo” e terrorizzante offerto dal misterioso suono che avviene fuori scena, che durante le prove organizzatori e censori (che già avevano tollerato la scelta di un soggetto considerato “scandaloso” come l’Hernani di Hugo) avanzarono dei dubbi sul cupo si naturale con cui Silva annuncia, nel IV Atto, la sua vendetta? Le atmosfere goticheggianti e misteriose dell’Ernani non finiscono, tuttavia, qui: è indimenticabile il cupo impasto orchestrale con cui si apre il III Atto tra i sepolcri di Aquisgrana. La toccante meditazione di Don Carlo sulla futilità della vita viene introdotta da un celeberrimo assolo di clarino basso (lo stesso strumento protagonista dello splendido Preludio all’Atto II della Maria de Rudenz e che, incredibilmente per l’epoca, il Teatro La Fenice aveva stabilmente in organico) che contribuisce a definire un clima di sepolcrale suggestione: come nota Fabrizio Della Seta in origine l’assolo doveva essere di tromba, ma la presenza di questo strumento così particolare in organico e il fascino del suo timbro così insolito sono stati più attraenti per il giovane compositore.

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