Belisario e la revisione di Ottavio Sbragia

Belisario di Gaetano Donizetti ha conosciuto e sta conoscendo, in questo 2012, una sorta di (limitata) rinascita: Belisario è stato infatti allestito dal Bergamo Musica Festival 2012 (leggi qui la mia recensione su OperaClick) come titolo inaugurale di quest’anno e dalle recite orobiche, interpretate da Donata D’Annunzio Lombardi, Dario Solari, Andeka Gorrotxategui, Annunziata Vestri e Francesco Palmieri con la direzione di Roberto Tolomelli e la regia di Luigi Barilone, verrà montata e edita la prima realizzazione in dvd del capolavoro donizettiano. L’opera è anche in corso di incisione per la benemerita casa inglese Opera Rara, che ne sta realizzando la prima registrazione in studio assieme a una rappresentazione in forma di concerto alla Barbican Hall di Londra con la BBC Symphony Orchestra diretta da Mark Elder e un cast composto da Joyce El-Khoury, Nicola Alaimo, Russell Thomas, Camilla Roberts e Alastair Miles. In entrambi gli allestimenti è stata utilizzata l’edizione moderna a stampa dell’opera realizzata dallo studioso Ottavio Sbragiache ormai da moltissimi anni si sta dedicando con cura a questo misconosciuto capolavoro donizettiano. Le rappresentazioni orobiche e londinesi del 2012 non sono, tuttavia, le prime ad aver utilizzato il lavoro di Sbragia dato che, come informa il blog del curatore, l’edizione è stata utilizzata nel 2000 da Opera Rara per il disco Bel Canto Portrait nonché allestita nel 2004 al Fletcher Opera Institute North Carolina e nel 2011 rappresentata in forma di concerto alla Queen Elizabeth Festival Hall di Londra, con il Chelsea Opera Group sotto la direzione di Richard Bonynge e l’Antonina di Nelly Miricioiu. Per saperne qualcosa di più ho inviato qualche domanda via mail al Dott. Sbragia, domande cui ha risposto con grande cortesia e disponibilità, ed è con la pubblicazione di questo “carteggio” che intendo inaugurare questa nuova rubrica di interviste del blog, che intende raccogliere le testimonianze di studiosi, musicologi e/o anche semplici appassionati sugli aspetti più curiosi, particolari e interessanti del mondo del Primo Ottocento italiano.

D: Come mai ha deciso di occuparsi, e per tutto questo tempo per giunta, di un’opera come Belisario? Che fascino ha per lei?
R: Come molte cose nella vita, l’incontro con Belisario fu del tutto fortuito. Realizzai, negli anni novanta, la copia del manoscritto conservato a Venezia: un lavoro in cui non apparivo ufficialmente ma la cosa importante fu che mi innamorai dell’opera e ottenni in seguito di conservare tutti i diritti e i files del lavoro da me effettivamente realizzato.
Da quel momento, nei momenti liberi ho approfondito il lavoro cercando e comparando vari manoscritti e spartiti. I miei contatti con Ricordi non portarono ad una collaborazione ma dopo alcuni anni potei prendere visione del manoscritto autografo conservato alla Braidense. Il mio è stato, quindi, un lavoro al contrario. Sono arrivato al manoscritto cercando conferme.
Non so se si trattò di fascino. È diventato negli anni come un figlio non perfetto ma proprio per questo amato nelle sue imperfezioni come nelle sue grandissime qualità.
D: Tra i “non addetti ai lavori” c’è spesso un po’ di confusione sull’effettiva utilità di revisioni e/o edizioni critiche: può spiegare in cosa consiste il lavoro di un revisore in una partitura per l’esecuzione, come è il caso della sua edizione moderna a stampa del Belisario?
R: Premesso che il primo sforzo mentale che bisogna fare è pensare che l’Opera italiana ha avuto per più di duecento anni la stessa frenesia e capacità produttiva delle fiction televisive di oggi. Noi, oggi, ci avviciniamo a questo repertorio, del quale ascoltiamo forse il 5% di quanto prodotto allora, con un animo più da archeologi e da amanti dei musei che da entusiasti spettatori che attendono trepidanti il nuovo film di Scorsese.
Il nostro approccio è diverso e per rispondere cercherò di semplificare, per i non addetti ai lavori, facendo un esempio estremo e proiettato nel futuro.
Ipotizziamo che fra cent’anni siano andate distrutte da tempo tutte le registrazioni, i video e quant’altro di tutte le canzoni dei Beatles e dei loro contemporanei. Un buco nero documentale che copre due decenni, gli anni sessanta e settanta. Chi volesse suonarle come gli autori le concepirono avrebbe a disposizione solo gli spartiti, in cui sono indicati la linea vocale, le parole, la linea del basso e gli accordi numerati. Come diceva Mahler: “Tutto fuorché l’essenziale”. Su quei fogli infatti non si troverà nulla riguardo all’uso e allo stile della batteria, come non ci saranno indicazioni per lo stile vocale, l’eventuale raddoppio per terze, il modo di ornare il basso e il controcanto della chitarra elettrica. Nulla di ciò e di altri aspetti fondamentali quali le caratteristiche degli strumenti, dell’amplificazione, dell’improvvisazione o le caratteristiche dei luoghi sarà scritto in quei fogli perché, in un momento così vitale e frenetico, nessuno aveva reputato utile annotare cose così ovvie ai contemporanei.
Si cercherebbero quindi queste informazioni oltre che sugli spartiti, da testimonianze dirette o su altre fonti che indirettamente potrebbero far luce su qualche dettaglio utile riguardo a come leggere fra le righe quei pochi segni che abbiamo sulla partitura e ricostruire così lo stile, “il sound” e l’anima dei Beatles. Inizierebbe così una indagine senza fine che si arricchirebbe negli anni sia di vari studi che di metodi di indagine sempre nuovi in rapporto ai precedenti.
Questo esempio estremo, che si adatta perfettamente alle problematiche che incontrano i musicisti che si cimentano con la musica antica e barocca, è valido, in misura diversa, per il repertorio operistico ottocentesco.
Ogni studio sulle fonti di un’opera, fatto alla luce di quanto appreso nei decenni passati, sarà quindi sempre utile e benvenuto, sia per la conoscenza che per una eventuale rappresentazione. Il mio Belisario trova spazio anche in un vuoto editoriale, perché le edizioni eseguibili disponibili in un recente passato, sono andate perse.
D: Spesso l’ascolto di una revisione lascia gli appassionati delusi, perché alcune delle differenze con la musica normalmente eseguita (per quanto si possa parlare di normalità di esecuzione in un’opera mai entrata in repertorio come Belisario) non sono immediatamente avvertibili: nel caso del suo lavoro quali sono le differenze con l’edizione di Profeta utilizzata da Gavazzeni? Ci sono state anche delle scoperte e/o delle curiosità?
R: Sulla prima parte della sua domanda mi trova un po’ critico e probabilmente le darò una risposta, ovviamente opinabile, che non sarà amata dai suoi lettori. Vorrei infatti, riportare nel giusto ambito le registrazioni e la loro importanza.
Va premesso che lo spettacolo musicale – sia esso opera o concerto – come quello teatrale, hanno origine da un testo che è un unicum ed è statico nella sua forma originale di scritto. La messa in scena è invece plurima e dinamica per definizione.
Oggi andiamo a vedere lo Shakespeare di Tizio e ascoltare il Verdi fatto da Caio, ma allo stesso tempo ambiamo a un rispetto nei confronti dell’originale che era inedito presso i contemporanei di Shakespeare e di Verdi .
Da più di un secolo, poi, l’aspetto dinamico, necessario e vitale delle rappresentazioni può essere fissato su un supporto e riprodotto a nostro piacimento. La rappresentazione così fissata nel tempo si trova ad avere una funzione documentale statica che stravolge la propria essenza ed entra altresì in conflitto con il testo originale. La trappola odierna scatta quando si vuole equiparare la registrazione di una interpretazione al testo originale.
Un appassionato di musica, che non ha altri strumenti per avvicinarsi ad essa se non attraverso le registrazioni, tenderà a considerare queste registrazioni come il Verbo. La sua rispettabile opinione sarà influenzata sì da un proprio gusto, ma soprattutto dalla notorietà di quell’interprete promosso, a volte con modalità da tifoseria, a punto di riferimento assoluto.
Se nessun strumento proprio all’arte musicale viene usato per comprendere tale interpretazione, ci si augura che i giudizi in merito a quella e ad altre interpretazioni siano meno dogmatici. Se portiamo come esempio il nostro Belisario veneziano, e riferendoci al solo direttore di orchestra, Gavazzeni opera tagli che trovano giustificazione in virtù di problematiche interne alla produzione del 1969 (regia e quant’altro) e a sue scelte personalissime. Interessantissime, a volte storicamente datate, ma nulla di ciò esiste nel manoscritto donizettiano. Per questo motivo quella registrazione, come mille altre, non può diventare il paradigma per rappresentazioni future, malgrado l’importanza dell’avvenimento e gli interpreti di eccezione.
Imperdonabile, invece, l’atteggiamento di certi musicisti che pur avendo gli strumenti per analizzare e operare delle scelte diverse e altrettanto valide, adottano acriticamente scelte altrui, anche errate, solo in virtù dell’importanza del nome di riferimento.
D: Leggo dal suo sito informativo che «per la parte vocale è già stato effettuato un riscontro con l’autografo conservato alla Biblioteca Braidense di Milano; sono stati inoltre consultati vari edizioni di spartiti canto e piano a stampa»; da questo studio ha ottenuto anche informazioni su eventuali raggiusti e adattamenti di cantanti del XIX secolo e, in generale, sulla prassi esecutiva dell’epoca? Se sì può fare qualche esempio?
R: Rispondo qui a tutti i riferimenti al mio lavoro contenuti nelle sue domande precedenti.
Belisario si è rilevata, in rapporto ad altre dello stesso Donizetti, un’opera relativamente “facile”.
Mi spiego: l’opera nella sua struttura e nella sequenza dei numeri è uguale in tutte le fonti consultate fino ad oggi. Non vi sono versioni “milanesi” o “parigine” dell’opera, né Arie spurie.
Solo molti dettagli differenti sparsi un po’ ovunque nella partitura, nel testo, nella linea vocale, in orchestra, forse risibili per un melomane, ma importanti per un musicologo.
In linea di massima possiamo dire che le fonti più autorevoli sono la copia veneziana, più simile all’autografo, e quella milanese conservata al Conservatorio che nella sua lieve diversità, è diventata il punto di riferimento per gli spartiti a stampa Ricordi.
L’esempio più eclatante di queste differenze, verificabile nelle registrazioni in commercio, lo troviamo nella terza parte dell’Opera, prima dell’entrata di Belisario morente. Non vi è traccia, nell’autografo, dell’intervento del coro che anticipa la sua apparizione: tutti tacciono mentre l’orchestra da sola suona la marcia funebre che abbiamo udito nell’adagio della sinfonia. Le prime parole che si odono sono quelle del morente.
Riguardo invece ai raggiusti, confesso che nel mio lavoro di ricerca, una volta appurato che il dato spartito non era affidabile non mi sono concentrato sulle eventuali differenze apocrife della linea vocale perché esulava dagli scopi della mia ricerca. Ho notato, in generale, in tutti gli spartiti, un numero maggiore di corone (le fermate) nei punti cadenzali della linea vocale, alcune appoggiature sia nella linea vocale che nei recitativi.
Le curiosità che ho incontrato e che potrebbero essere divertenti per i lettori, riguardano due annotazioni extra musicali dello stesso Donizetti. Nell’autografo alla fine del duetto Irene Belisario la loro uscita di scena è commentata con “..e partono per Venezia” [in realtà luogo del debutto dell’opera]. La seconda annotazione è alla fine dello stretto del terzetto, nel terzo atto, nel quale mano ignota ha scritto “diamo la nostra approvazione” alla quale Donizetti risponde “me ne strafotto e me ne strabuggero”.
D: Come inserisce la composizione di Belisario nell’arco della carriera di Donizetti? Qual è l’importanza di quest’opera?
R: Musicologi donizettiani ben più accreditati di me hanno dissertato sulla questione senza in realtà dargli molta importanza. Pone alcuni interrogativi la scelta del soggetto. Personalmente penso che la felice e allora recente collaborazione per la Lucia di Lammermoor col librettista Cammarano, il quale aveva nel cassetto il libretto per il Belisario, ebbe forse un peso nella scelta di Donizetti che impose, infatti, al Teatro la Fenice di Venezia soggetto e librettista. Malgrado l’opera sia, nella produzione donizettiana, immediatamente preceduta dalla Lucia e una affermazione del compositore, in una lettera contemporanea alla gestazione dell’opera, citi “voglio amore, che senza questo i soggetti sono freddi, e amor violento”, il Belisario si pone in un registro totalmente diverso. È un’opera seria, tipologia non più in auge al momento e nel quale Donizetti si era già cimentato, e benché di amore ce ne sia tanto non è amor di amanti. Si tratta infatti di amor figliale, amor patrio, fedeltà all’imperatore; poi troviamo oracoli, spettacolari riconoscimenti e odio.
Certo è che l’opera conobbe un incredibile successo dal 1836, anno del debutto veneziano, fino agli tutti gli anni cinquanta dell’Ottocento per poi letteralmente scomparire dal repertorio. Il soggetto oggi non interessa molto, la mancanza dell’aria di sortita di Belisario demoralizza i baritoni, il libretto a volte è carente, ma quest’ultima è una critica che si può applicare a molte opere conosciute. Il Belisario però è di grande impatto e ne era ben conscio Donizetti che, spiegandone il successo, scriveva a proposito “non si illude una popolazione senza qualcosa” ed elencando – in una lettera a Ricordi – i numeri accolti più favorevolmente alle prime rappresentazioni, di fatto elencava i momenti di grande musica dell’opera. Le arie di sortita di Irene e di Antonina, il duetto Belisario – Alamiro, il finale primo. L’Aria di Alamiro e poi la commozione del pubblico per tutto il secondo atto. Aria finale di Antonina applauditissima. Come sosteneva Visconti per una buona regia è importante che ci sia un buon inizio, un buon finale primo e un gran finale, tutti elementi che il Belisario contiene e per il quale, penso, meriti almeno per questo un pò più di considerazione nel repertorio odierno visto che comunque non priva lo spettatore di una grande emozione musicale.
D: Come si può utilizzare e noleggiare l’edizione per una rappresentazione?
R: Chiunque sia interessato al noleggio può scrivermi a belisario_edition@sbragia.info.
Sono proprietario dell’edizione dell’opera che è depositata alla SIAE, il materiale consta di Spartito canto e Piano, Partitura d’orchestra, parti orchestrali, arrangiamento per suonare la parte della banda con l’orchestra e apparato critico.
Il blog, che è rimasto da anni “in costruzione” e non fa onore al mio lavoro musicale, è raggiungibile con un semplice www.sbragia.info. Non avendo aggiornato il sito vorrei informare che la mia edizione del Belisario è stata usata per le rappresentazioni al Festival di Bergamo 2012: la rappresentazione del 23  settembre è stata trasmessa e registrata da Tele Bergamo ed è in programma la pubblicazione del DVD da parte della Fondazione Donizetti. A Londra è in corso in questi giorni la registrazione dell’opera completa da parte di Opera Rara. L’uscita del CD è prevista per la fine 2013.

Pubblicato anche su L’Ape Musicale.

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  1. #1 di Nicola il 20 ottobre 2012 - 08:57

    Bell’intervista, davvero! Da aspirante filologo, anche se in altro ambito, mi emoziono sempre di fronte a certi particolari che ci vengono rivelati dai manoscritti (in questo caso, le amene frasi di Donizetti)!
    Anche se lo capisco pienamente, mi ha invece un po’infastidito il discorso sulle registrazioni storiche considerate alla stregua degli originali: innanzitutto, quando gli studiosi rimarcano troppo la differenza tra se stessi e “i non addetti ai lavori” non è mai un buon segno; e poi, il discorso di Sbragia mi sembra, alla fin fine, rappresentare una giustificazione alle performance più o meno mediocri che ci vengono propinate oggi (come è stato il Belisario di Bergamo, per l’appunto): tanto non lo sappiamo mica come venivano eseguite (quindi cantate) queste opere nell’Ottocento…

    • #2 di Gabriele Cesaretti il 21 ottobre 2012 - 13:26

      Grazie Nicola! Vedi, io credo che sotto molti punti di vista però Sbragia abbia ragione, nel senso che l’opera non è uno spettacolo che nasce immutabile, ma deve vivere nell’ottica “fragile” del momento della rappresentazione. Anche sentendo cd e registrazioni (a maggior ragione se live) non dovremmo mai dimenticarci che non sono “la” interpretazione ma “una” interpretazione, colta in un momento ben preciso nello spazio e nel tempo. La stessa Gencer come Antonina è diversa da Venezia a Bergamo e idem da Bergamo a Napoli. In quest’ottica mi sembra un invito a contestualizzare criticamente l’esperienza di ascolto, che è qualcosa che facciamo di solito (mi sembra di ricordare una nostra discussione intorno a questo aspetto… forse a Macerata? O a Bergamo?) perché è un’esperienza di ascolto “statica” di una forma d’arte “dinamica”. Evitare di mitizzare all’eccesso esecuzioni (magari dicendo “Tosca è morta e non si può più allestire”) non significa, a mio avviso, automaticamente accettare performance deludenti. IMHO, ovviamente. Un salutone!!

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