Archivio per la categoria Operisti minori dell’Ottocento

Un musicista jesino riscoperto

PaggiSegnalo un bell’evento che si è tenuto domenica scorsa presso il Palazzo Baldeschi Balleani di Jesi, nell’ambito della Stagione 2013/14 della rassegna Concerti a Palazzo organizzata dalla Fondazione Lanari. La serata Benvenuti in casa Paggi – La riscoperta di un “divo” jesino osannato nel mondo ha permesso di riscoprire musiche dello jesino Giovanni Paggi con il soprano Rosita Tassi, il baritono Davide Bartolucci, il pianista Andrea Zepponi. Mi spiace non  aver potuto assistere a un evento che si annunciava estremamente interessante e particolare: per chi si chiedesse, giustamente peraltro, chi sia questo Carneade – Paggi, copio e incollo da internet (a cura dell’organizzatore Gianni Gualdoni) maggiori informazioni su questo sconosciuto divo del XIX secolo.

Il musicista jesino Giovanni Paggi –vissuto tra il 1806 e il 1887- è oggi pressoché sconosciuto a tutti: non solo all’uomo della strada, ma anche al più attento appassionato di musica e perfino a gran parte degli stessi professionisti della musicologia. Il nome di Paggi non appare nell’importante “Dizionario della musica e dei musicisti” della UTET, né in “The New Grove Dictionary of music and musicians”.
È stato un grande concertista, un autentico “virtuoso” dell’oboe, conteso per decenni da istituzioni musicali e salotti privati di mezzo mondo. Uno strumentista d’eccezione, ma anche un abilissimo compositore, apprezzato per una raffinatezza di scrittura che unisce solido mestiere e grande eleganza.
L’appuntamento a Palazzo Baldeschi Balleani di Jesi domenica 13 aprile, dal titolo significativo “Benvenuti in Casa Paggi”, ha riproposto l’atmosfera intima e rarefatta dei salotti privati dell’alta società dell’epoca, offrendo in prima esecuzione moderna partiture originali del Maestro scritte per canto e pianoforte proprio per quel tipo di ambienti internazionali.

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Don Checco di Nicola de Giosa

Nicola de GiosaRicevo e pubblico volentieri da Paola Ciarlantini il seguente articolo sulla ripresa in epoca moderna dell’opera Don Checco del compositore barese Nicola de Giosa, avvenuta allo Showville di Bari il 15 marzo 2013. Il lavoro, composto nel 1850, era famoso per essere l’opera comica preferita di Ferdinando II di Borbone. Sono peraltro molto felice che tale riproposta sia avvenuta grazie alla direzione aristica di Angelo Cavallaro, che a Jesi ricordo promotore instancabile di tanti recuperi della produzione musicale sconosciuta del XIX secolo.
L’atteso ritorno sulle scene del Don Checco di Nicola De Giosa (di PAOLA CIARLANTINI)

L’opera Don Checco di Nicola De Giosa (Bari 1819-1885) è stata, secondo Andrea Lanza, curatore della voce sul compositore per il The New Grove Dictionary of Music and Musicians (il più autorevole dei dizionari musicali correnti), “his masterpiece and one of the greatest successes in the history of Naples”. Lo testimoniano le novantasei repliche della prima rappresentazione, avvenuta al Teatro Nuovo di Napoli l’11 luglio 1850, e una fortunata cronologia teatrale durata fino al tardo Ottocento. Don Checco, frutto maturo ed importante del circuito teatrale meridionale in epoca preunitaria ha rivisto le scene allo Showville di Bari lo scorso 15 marzo 2013, in forma di concerto, grazie all’azione congiunta di due specialisti del settore: il M° Angelo Cavallaro, attuale direttore artistico dell’Orchestra Sinfonica della Provincia di Bari,  già per un decennio direttore artistico del Teatro “G. B. Pergolesi” di Jesi (per il quale ha promosso numerose prime in epoca moderna di celebri opere dimenticate, come ad esempio Giulietta e Romeo di Nicola Vaccaj), e il M° Lorenzo Fico, musicologo, direttore d’orchestra e filologo, che dell’opera del compositore barese ha curato l’edizione critica e la direzione musicale.

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Leonora ossia l’amore coniugale di Ferdinando Paër in cd

Scan-130404-0001Ritorno a parlare brevemente della bella opera Leonora ossia l’amore coniugale di Ferdinando Paër perché, come segnalatomi in un commento al post in cui NSB affrontava questa e l’opera di Mayr su soggetto simile, è appena stata ristampata nella serie Australian Eloquence della Decca la bella registrazione in studio del 1978, da grande tempo fuori catalogo. Interpreti dell’opera sono Ursula Koszut (Leonora), Siegfried Jerusalem (Florestano), Edita Gruberová (Marcellina), Norbert Orth (Pizzarro), John van Kesteren (Fernando), Giorgio Tadeo (Rocco) e Wolfgang Brendel (Gioacchino) con la Bayerisches Symphonieorchester diretta da Peter Maag. La segnalazione è d’obbligo perché la ristampa, in tempi di serie super-economiche e super-spartane nella confezione, è avvenuta facendo le cose veramente per bene, sia per quel che riguarda il riversamento sia per quanto concerne il booklet d’accompagnamento, che riporta non solo una nota di Peter Maag relativa alla prima edizione in LP ma anche – udite! udite! – persino il libretto integrale dell’opera. Considerando la complessiva riuscita dell’intera esecuzione musicale trovo questo prodotto un cd da non perdere.

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Il recital in una camera

Ho in più occasioni espresso (ad esempio parlando delle composizioni di Rossini, Verdi e Crescentini) la mia passione per la produzione di musica vocale da camera di autori italiani. Resto in tema, per l’occasione, segnalando un vecchio LP (che non mi risulta mai essere stato riversato in cd) del soprano Elvidia Ferracuti registrato a Recanati il 6 ottobre 1986 con l’accompagnamento al piano di Paola Mariotti: il programma del recital alterna celeberrime pagine rossiniane dalle Soirées Musicales a due bellissimi frammenti donizettiani (La Gondoliera e La Fidanzata) chiudendosi con tre verie e proprie chicche come la romanza del livornese Fabio Campana La Veglia e due frammenti del tolentinate Nicola Vaccaj: l’aria Il Cosacco del Volga e la romanza “Alle più tristi immagini” dall’opera Virginia, riscoperta dalla stessa Ferracuti che ne ha anche curato la riduzione per canto e piano dalla partitura originale per orchestra. Soprano marchigiano, nata a Petritoli (Fermo) nel 1935 e residente a Pesaro, Elvidia Ferracuti è affettuosamente conosciuta come la “Rosina delle Marche”, in omaggio al suo ruolo rossiniano più eseguito e amato, oltre che all’attaccamento alla regione in cui è nata: con questo post mi piace ricordare anche il suo impegno come concertista e ambasciatrice delle composizioni da camera che, spesso, rivelano insospettabili tesori nascosti. Un piccolo tesoro nascosto è anche questo bel recital, che temo non abbia affatto goduto di grande diffusione, mentre si rivela molto gradevole e interessante.

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Ancora sul Maometto di Winter

Poco più di un anno fa pubblicavo un post dedicato all’interessante Maometto di Peter von Winter, segnalando come il Terzetto “Dei che piangendo imploro” fosse una delle pagine più belle della partitura, ammirato anche da Gioachino Rossini. Oltre all’incisione completa della Marco Polo (che riproduce l’intera opera registrata al festival di Bad Wildbad) questo splendido frammento è anche ascoltabile all’interno dell’antologia A hundred years of Italian Opera 1810-1820 della sempre benemerita Opera Rara, nell’esecuzione di Christian du Plessis, Anne Mason e Bronwen Mills con la Philharmonia Orchestra diretta da David Parry. Avendolo trovato su Youtube ve lo propongo.

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Alessandro nell’Indie di Giovanni Pacini

Quando Giovanni Pacini compone Alessandro nell’Indie è il 1824 e l’opera rappresenta il suo debutto con una nuova composizione nella prestigiosa piazza napoletana, all’epoca metropoli tra le più attive e vivaci per quanto riguarda l’opera lirica. La musica di Pacini era ovviamente nota ai napoletani, che avevano ascoltato alcune delle sue precedenti composizioni sia al San Carlo che al Teatro del Fondo (sembra incredibile ma il nemmeno trentenne compositore, all’epoca, aveva composto più di venti opere, la maggior parte delle quali avevano debuttato a Milano, sia al Teatro Re che alla Scala) ma è con l’Alessandro nell’Indie che il compositore avrebbe fatto ascoltare per la prima volta una musica nuova sul palco che lo avrebbe visto, negli anni seguenti, trionfare prima con L’ultimo giorno di Pompei del 1825 e poi, tanto per citare solo un altro titolo, con la Saffo del 1840, a tutt’oggi l’opera paciniana più giustamente celebre. Alessandro nell’Indie fu un debutto molto sofferto e Pacini stesso ne parla con dovizia di particolari nelle sue Memorie: “Eccoci alla prima sera fatale! Il teatro era affollatissimo poiché trattavasi di dover giudicare un’opera nuova d’un giovane maestro. Rimasi meravigliato (almeno in quell’epoca) del contegno dell’udienza. Si poteva dire di essere veramente ad un teatro di corte. Principia lo spettacolo. Un silenzio perfetto regna durante l’intera esecuzione!… Niuno applauso agli artisti, e per conseguenza neppure al povero maestro. Alla fine dell’opera un mite zi… zi… zi… si ripete in quel vasto recinto. Lascio considerare al lettore lo stato mio! Aveva passato l’intera serata esposto alla berlina (poiché si usava tuttora che l’autore dovesse andare al cembalo altro non facendo che voltare i fogli al violoncello ed al contrabbasso), fra la speranza ed il timore, essendo stato prevenuto che il pubblico di S. Carlo non applaudiva mai alla prima udizione di una nuova musica, ed assicurato che anche il gigante pesarese aveva subito la stessa sorte co’ suoi capi d’opera, principiando dall’Elisabetta. Ma il zittire alla fine dello spettacolo mi spaventò!

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Giulietta e Romeo di Nicola Vaccaj

Esistono casi della vita piuttosto strani, che possono rendere un’opera d’arte celeberrima e misconosciuta al tempo stesso. Un esempio è nel Giulietta e Romeo di Nicola Vaccaj, compositore di Tolentino (Macerata): ogni studente di canto conosce il nome di Vaccaj, in quanto autore di uno dei più apprezzati e celebrati metodi per l’addestramento della voce del XIX secolo, in uso ancora oggi; ogni appassionato belliniano conosce Vaccaj perché dal suo Giulietta e Romeo deriva il libretto (sempre a cura di Felice Romani) dei più celebri (e, onestamente, più riusciti) Capuleti ed i Montecchi di Bellini senza dimenticare che, secondo una pratica cara all’ego delle primedonne ottocentesche, il finale di questa dimenticata opera di Vaccaj veniva quasi sempre inserito nel corpo nell’opera belliniana, perché considerato più efficace, tanto che la Ricordi ufficializzò la pratica pubblicandolo in appendice allo spartito e alle parti dei Capuleti. Solo di recente, e con la nuova edizione critica dell’opera a cura di Claudio Toscani (Milano, Ricordi 2003) si è formalizzato il definitivo abbandono nella pratica teatrale di questa curiosa tradizione. Una tradizione curiosa perché, pur permettendo all’opera di continuare a essere conosciuta e consentendo al nome di Vaccaj di perpetuare la propria fama, di fatto seppellì nell’oblio tutta la musica che precedeva la cosiddetta “scena dei sepolcri”: dopo il debutto al Teatro alla Canobbiana di Milano, avvenuto il 31 ottobre 1825, l’opera aveva infatti conosciuto una relativa diffusione fino al debutto dei Capuleti (Teatro La Fenice di Venezia, 11 marzo 1830) per poi vivacchiare fino alla metà degli anni ’30, dopo un’ultimo allestimento milanese con il Romeo di Maria Malibran in un’edizione, peraltro, ampiamente rimaneggiata (Giulietta fu Sophie Schoberlechner). Solo la scena finale, quindi, sopravvisse, ma dopo nemmeno vent’anni dal debutto il resto dell’opera era già dimenticato. Curioso peraltro che l’ultimo Romeo ottocentesco (famosa interprete, anche se in non molte produzioni, dell’altra celebre opera di Nicola Antonio Zingarelli sul medesimo soggetto) sia stata proprio l’artista spagnola al cui nome è legato il capriccio della sostituzione del finale di Bellini con quello di Vaccaj (ma vedremo che non fu la Malibran la prima a imporre la sostituzione).

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La Potenza d’Amore [Cd Opera Rara]

Il mondo della musica vocale da camera è uno dei più affascinanti nell’ambito della produzione artistica del XIX secolo, trovando anche in Italia uno spazio tutt’altro che ristretto, soprattutto grazie ai salotti nobili, nelle cui serate di musica non era infrequente assistere a veri e propri recital densi di ariette e cantate composte per l’occasione. La casa inglese Opera Rara ha riservato un’intera serie (significativamente intitolata Il Salotto) alla produzione italiana e francese del XIX secolo, in particolare dedicando il secondo volume della serie (La Potenza d’Amore) al genere della cantata. La cantata, una forma musicale che nell’alternanza di recitativi e arie si configura come una sorta di mini-opera da camera, era un genere particolarmente apprezzato nel periodo barocco e settecentesco; il soggetto di una cantata, in genere, si legava al mondo mitologico e/o arcadico, ma non mancava l’elemento religioso (tradizione particolarmente feconda in Germania, basti pensare alla sterminata produzione di cantate composte da Johann Sebastian Bach). Nel primo Ottocento, epoca oggetto delle cantate contenute nel cd Opera Rara, il genere conobbe la sua ultima e estrema fioritura, grazie alla diffusione della musica da salotto, eseguita durante le raffinate serate di conversazione che avvenivano nei salotti di facoltose e colte padrone di casa nobili. Il cd, di impaginazione estremamente curata e ricercata come è la regola nelle produzioni della Opera Rara, propone un florilegio di cantate (alcune delle quali estremamente elaborate) in cui trovano spazio vere e proprie chicche, come La gloria al massimo degli eroi di Ferdinando Paër, scritta probabilmente nel 1810 per le nozze di Napoleone e Maria Luisa d’Austria, che prevede un accompagnamento d’arpa al posto del solito pianoforte.

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acta est fabula – 5 – Jone, o L’ultimo giorno di Pompei di Errico Petrella

Parlare di atmosfere tardo ottocentesche già nel 1858 è, forse, un azzardo,  ma è in questa data che, con Jone, o L’ultimo giorno di Pompei, su libretto di Giovanni Peruzzini, il compositore palermitano Errico Petrella (1813 – 1877) introduce nel mondo dell’opera lirica una serie di topoi che diventeranno sempre più diffusi man mano che il XIX secolo si avvierà verso la conclusione: si parte dalla definizione quotidiana del mondo pagano come luogo di lussuria e di piaceri smodati (li potremmo già chiamare decadenti) così come si vede nella taverna che ci appare al I Atto, in cui gladiatori e giovani patrizi giocano e bevono ad “alba già inoltrata” e si prosegue con la vivace e popolaresca raffigurazione del mercato di Pompei alla sera, che anticipa tutte le scene “pittoresche” di cui sarà prodiga l’opera verista (anche nel testo: “Chi vuol pistacchi e datteri!… / aranci ne vuole!… / Garofani, viole, / rose, chi vuol comprar. / D’ogni gusto, d’ogni odor, / qui son frutta, qui son fior. / Murene di vivaio, / ostriche di scogliera! / Tarda si fa la sera… / presto,… chi vuol comprar. / N’ho di lago, n’ho di mar… / Chi il mio pesce vuol comprar!”). Il libretto di Peruzzini, a differenza della quasi omonima opera di Giovanni Pacini, è tratto dal romanzo The Last Days of Pompeii dello scrittore britannico Edward Bulwer-Lytton, da cui l’autore elimina la conversione al cristianesimo dei protagonisti dando invece spazio alla ricreazione un po’ macchiettistica della vita quotidiana dell’epoca: come nota lo studioso Luigi Baldacci “se il mondo dell’opera aveva fatto uso ed abuso di una romanità di stampo metastasiano incentrata sul dovere, l’onore, l’amore della patria e il culto degli dei, la Pompei del Peruzzini ci fa conoscere la ROMA-AMOR“; una “ROMA-AMOR” (aggiungo io) non priva di velleità archeologico-storiche mutuate da Bulwer-Lytton, come quando si fa un preciso riferimento al violento terremoto che interessò la Campania nel 63 d.C (precedente la disastrosa eruzione del 79 d.C che distrusse Pompei) facendo cantare al coro, nella stessa scena del mercato di cui sopra: “Come l’aria sa di zolfo!… / È presagio di sventura. / par che s’alzi là dal golfo / una nebbia scura, scura. / Da tre giorni, o molto, o poco, / il Vesuvio manda foco… / Sedici anni restò zitto… / che si desti è da temer.”

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acta est fabula – 4 – La Vestale di Saverio Mercadante

Il soggetto della spontiniana Vestale (opera del 1807 in cui il conflitto tra l’amore e la religione viene felicimente risolto con il perdono divino del finale e relativo, festoso, matrimonio dei due protagonisti) non era nuovo nei primi decenni dell’800 e conservò una sua popolarità almeno fino alla metà del XIX secolo: prima di Gaspare Spontini musicarono un soggetto simile anche Domenico Cimarosa, Giuseppe Sarti, Giacomo Tritto, mentre dopo Spontini esso fu affrontato anche da Vincenzo Pucitta, Giovanni Pacini e, soprattutto, Saverio Mercadante, la cui Vestale (debutto al Teatro San Carlo di Napoli il 10 marzo 1840) appare particolarmente interessante per come vira in atmosfere tragiche e disperate (in una parola: romantiche) l’ottimismo “neoclassico” che, a dispetto del conflitto tra religione e amore, permea il capolavoro di Spontini, rendendolo una storia densa di cupo e desolante “male di vivere”, sullo sfondo di una Roma fastosa e opprimente, già decadente perché troppo sontuosa e con i germi del declino ravvisabili nel meccanismo che sovrintende a esistenze votate al culto di dei lontani, irraggiungibili e indifferenti, da placare con inumani e inutili sacrifici. Se si dovesse fare un paragone con un’opera d’arte dei nostri tempi si potrebbe paragonare, mutatis mutandis, l’atmosfera rinunciataria e cupa di questa opera mercadantiana a quella, pure desolante e priva di speranza, del romanzo La solitudine dei numeri primi di Paolo Giordano.

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