Archivio per la categoria Operisti in Europa

Männerarten

coverApprofitto di questo (ennesimo) momento di (forzato) stop per segnalare almeno una bella pubblicazione e-book di fresco data fuori: Männerarten. La prassi esecutiva del Ring nella Neu-Bayreuth (1951-1975) di Davide Bartolucci. Si tratta di una segnalazione che ritengo doverosa per tanti motivi: Davide è un caro amico e una penna molto piacevole; l’argomento è estremamente interessante e godibile anche per chi (come me) non è esattamente un wagneriano di provata e secura fede; la casa editrice è la Piccoli Giganti Edizioni per cui a breve uscirà una mia fatica dedicata all’immortale Lucia di Lammermoor (ed ecco il perché del forzato stop del blog, se mi dedico al blog non mi dedico a Lucia… e Lucia al momento ha la priorità); la splendida foto di copertina, inoltre, è di Lucia T Sepúlveda, che i lettori del blog conoscono assai bene. 🙂 Insomma che aspettate?

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La Favorite per due violini di Wagner

La Favorite (arranged for 2 violins by Wagner) - frontNei suoi anni “parigini” Richard Wagner si adoperò, per sbarcare il lunario, in varie trascrizioni del successo del momento, ovvero La Favorite di Gaetano Donizetti. La trascrizione per duo di violini ha visto, quasi dieci anni fa, la realizzazione di un interessantissimo cd a cura della Oehms Classics, contenente questo brillante arrangiamento donizettiano eseguito da Matthias Wollong e Jörg Faßmann, con la narrazione di Daniel Morgenroth a intervallare i vari numeri dell’opera su testi di Michael Dißmeier. Realizzata  nei primi anni ’40 del XIX secolo su commissione dell’editore Maurice Schlesinger (che pagò Wagner molto poco, almeno rispetto agli standard dell’epoca, ovvero 1100 franchi per una serie di trascrizioni che, oltre a questa, comprendevano anche quella per piano, a due e a quattro mani, per quartetto d’archi ecc) la trascrizione, ovviamente, non reca assolutamente nulla di quello che diventerà poi il caratteristico stile di Wagner: la musica che si sente è di Donizetti, Wagner non fa altro che ridurla in una scintillante partitura da camera che gli amatori francesi dell’epoca avranno sicuramente suonato nella quiete dei loro salotti mondani. Nulla più di una curiosità, in fondo, ma che in questo 2013 dedicato a Verdi e Wagner nel bicentenario della nascita ci permette di ricordare anche uno dei periodi più bui della vita del genio di Lipsia, prima che rivoluzionasse la storia della musica. L’esecuzione di Matthias Wollong e Jörg Faßmann è coinvolgente e “salottiera” al punto giusto, rendendo questo disco, registrato nel marzo 2004, di piacevolissimo ascolto.

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Maria Callas: Callas at La Scala

Callas at La ScalaIn quasi due anni di attività del blog questo è il primo post che dedico all’arte di Maria Callas. Una mancanza per certi versi imperdonabile, dettata dalla mia personale idiosincrasia nei confronti dei “vedovi” più intransigenti, quelli che ritengono la mitica greca interprete incomparabile anche dei ruoli che non ha cantato, perché se li avesse cantati allora sì che non ci sarebbe stato spazio per nessuno. Il risultato del mio confronti con alcuni di questi “vedovi” è che per qualche periodo ho messo un po’ la Callas da parte, salvo poi riscoprirla come si riscopre un amico da cui ti eri allontanato per un’incomprensione indipendente dal vostro rapporto e, dato che negli ultimi tempi è stato questo il disco che è finito più volte nel mio lettore, questo propongo come “debutto” callasiano su queste pagine. Callas at La Scala  (attualmente disponibile nel catalogo Emi solo all’interno di un poderoso cofanetto che raccoglie tutti i recital in studio della Divina) nacque come una sorta di fotografia dei ruoli che, nel 1955, il soprano aveva portato in scena nel massimo teatro milanese: Medea di Luigi Cherubini nel 1953, La Vestale di Gaspare Spontini nel 1954 e La sonnambula di Vincenzo Bellini nello stesso anno, 1955, in cui ebbero luogo le sessioni di registrazione del disco in questione. La cosa curiosa, tuttavia, è che la Callas non si reputò soddisfatta del risultato ottenuto con le due grandi arie di Amina, tanto che ne vietò la pubblicazione e la Emi, che all’epoca aveva già in catalogo due album della Callas, Puccini Arias e il mitico Lyric and Coloratura Arias, pubblicò solo le arie di Medea e Vestale nel 1958, unendole alle arie di Amina tratte dalla registrazione integrale con la direzione di Antonino Votto. Ascoltando la sua Amina pudica e dolente si resta sorpresi e quasi stupiti del divieto callasiano, dato che si tratta di un’interpretazione ovviamente notevolissima (e che, per la cronaca, venne commercializzata dalla Emi un anno dopo la sua morte, aspettando il ventennale del 1997 per ristampare il disco così come avrebbe dovuto essere concepito in origine).

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Teseo riconosciuto di Gaspare Spontini

La riscoperta della Civiltà Musicale Marchigiana – Questo progetto del Teatro Pergolesi di Jesi, gestito dal 1995 al 2003 dall’allora direttore artistico Angelo Cavallaro, previde la prima esecuzione moderna di opere assai rare (delle quali, quando necessario, venne effettuata la revisione critica) di autori marchigiani: in tutto vennero eseguite otto opere, sei delle quali legate al repertorio dell’Ottocento Italiano. Partendo dal ricordo di quelle riproposte jesine (la maggior parte delle quali è stata documentata in cd Bongiovanni) la rubrica Musica di Marca intende racchiudere tutti i post dedicati ai compositori minori marchigiani del XIX secolo (quali Alessandro Nini, Giuseppe Persiani, Lauro Rossi o Nicola Vaccaj) assieme ai post dedicati a Gaspare Spontini, che minore non fu ma appare nondimeno poco considerato, anche se ingiustamente, nei cartelloni attuali. Resta escluso dalla rubrica, per ovvie ragioni avendo una categoria a parte, il pesarese per eccellenza, Gioachino Rossini. Le opere alla base del progetto della riscoperta della Civiltà Musicale Marchigiana saranno i punti di partenza di una rubrica che si propone di valorizzare (nei limiti della diffusione del presente blog) quei lavori minori assimilabili allo stile dell’Ottocento italiano o che, come è il caso del Teseo riconosciuto, ne anticipano in parte alcune inquietudini.

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Opera e (riflessioni sulla) contemporaneità: “qualche operaia, qualche puttana in meno…”

La nascita del Macerata Opera Festival 2012 è stata parecchio travagliata: esaurito il rapporto con Pier Luigi Pizzi, precedente direttore artistico (la cui uscita di scena, a onor del vero, poteva essere gestita in maniera alquanto migliore di come non sia avvenuto) lo Sferisterio è rimasto fino a gennaio 2012 senza una guida e, ovviamente, senza una stagione. Solo ai primi di gennaio si è ufficializzata la nuova direzione artistica di Francesco Micheli, il cui cartellone (approntato in pochissimo tempo e presentato a fine febbraio) si è rivolto a tre titoli popolarissimi come La traviata di Giuseppe Verdi, La bohème di Giacomo Puccini e Carmen di Georges Bizet. E vabbé, siamo pur sempre un’Arena all’aperto e certe proposte più particolari sarebbero state improponibili per un’annata che mirava a conquistare un rapporto intenso e radicale (quasi populistico) con la città e il territorio, rapporto che si era in parte allentato negli ultimi anni (vedi anche questo mio vecchio editoriale pubblicato due anni fa su OperaClick). Il problema erano gli spettacoli: nemmeno a discutere per traviata, per cui si è deciso di riprendere il famosissimo e celebrato allestimento “degli specchi” con scene del compianto Josef Svoboda e regia di Henning Brockhaus. Lo spettacolo era stato creato nel 1992 (Violetta fu la compianta Giusy Devinu), aveva vinto il Premio Abbiati della Critica Italiana e, in seguito, era ritornato allo Sferisterio nel 1995 e 1996 (protagonista in entrambe le occasioni Luciana Serra, nel 1995 al suo debutto nel ruolo) per poi essere ripreso nel 1999 (debutto italiano come Violetta di Svetla Vassileva) e nel 2003 (con Eva Mei), oltre ad approdare in numerosissimi teatri italiani e stranieri (tra cui, negli ultimi anni, il Teatro Pergolesi di Jesi, il Teatro Ventidio Basso di Ascoli Piceno, il Teatro Carlo Felice di Genova, il Teatro Massimo di Palermo e il Palau des Artes di Valencia). Una ripresa (sia chiaro) doverosa e sacrosanta, a maggior ragione se si pensa che quest’anno cadeva il ventennale dalla creazione dell’allestimento in questione.

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Eliza, o el viaje al glacial del Monte San Bernard de Cherubini – En Español

Il primo anno di vita del blog è anche l’occasione per ringraziare quanti seguono NSB dall’estero e, per questo, propongo la traduzione spagnola dell’articolo più letto del 2011, ovvero Eliza, ou Le voyage aux glaciers du Mont St. Bernard di Cherubini, a cura di Blog in Traslation, ottimo sito che vi invito a visitare.

Si direbbe che, alzandosi al di sopra del soggiorno degli uomini, ci si lascino tutti i sentimenti bassi e terrestri, e che, a mano a mano che ci si avvicina alle regioni eteree, l’anima sia toccata in parte dalla loro inalterabile purezza.
(J.J.Rousseau, Julie, ou la Nouvelle Héloīse)

En el 1761 Jean-Jaques Rousseau ambientaba su noto romance epistolar Julie, ou la Nouvelle Héloīse en una “pequeña ciudad a los pies de los Alpes”, utilizando su enorme figura para sugerir ese deseo de elevación presente en el alma del protagonista. Empieza en éstas paginas un interés cada vez más intenso por la cadena montuosa, que culminará en la famosa expedición realizada por Jacques Balmat y Michel Gabriel Paccard, los cuales, en la tarde del 8 de Agosto del 1786, alcanzaron por primera vez la cumbre del Monte Blanco. Los Alpes entraban establemente en la historia de las artes como objeto estético (y ya no solo como una monstruosidad natural), tanto que su progresivo acercamiento a tramas que tenían como protagonistas mujeres jóvenes y puras (en el ‘800 hay muchísimos ejemplos: Sonnambula, Linda di Chamounix…) llevó al critico Emanuele Senici a hablar de ellas como de las “vírgenes alpinas”. La pureza del aire y la transparencia del cielo, y por supuesto el sentimiento de exaltación y grandiosidad que nace de la visión de las altas cumbres, eran un perfecto fondo a las virtudes (pureza y sobre todo castidad) de las protagonistas de éstos trabajos. El lazo será tan potente que también dejará rastros en algunos personajes de la Opera de fines del ‘800 y ‘900 (Wally de Catalani o Minnie de la Fanciulla del West de Puccini).

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Mathilde von Guise di Johann Nepomuk Hummel

Johann Nepomuk Hummel è uno di quei compositori condannati dalla sorte a scontare con l’oblio dei posteri l’estrema popolarità di cui godettero durante la loro carriera. Nel caso di Hummel, nato a Pressburg (attuale Bratislava, nota anche con i nomi di Pozsony e Prešporok) nel 1778, si parla peraltro di uno dei più celebrati e ammirati virtuosi della sua epoca per quanto riguarda il pianoforte, uno strumento a cui riservò anche alcune delle sue composizioni più celebri. Oltre a esplorare le possibilità del pianoforte Hummel si occuperà anche di musica sacra, musica da camera e, ovviamente, opera lirica, benché i melomani non conoscano affatto, nella maggior parte dei casi, il suo nome. Questa lacuna viene colmata dalla Brilliant Classics, che ha iniziato una sistematica esplorazione della musica del compositore slovacco assieme all’ensemble di strumenti originali Solamente Naturali guidato da Didier Talpan, con cui la vivace casa discografica ha consegnato alle stampe un disco di musica da camera con i due settimini per archi e fiati op.74 e op.114 “Militare”, un cd interamente dedicato alla musica sacra composta per la corte della famiglia dei Conti di Esterházy (in cui Hummel restò in servizio per sette anni dopo aver preso il posto che fu di Haydn) nonché l’opera lirica Mathilde von Guise, inserita all’interno della ricca e fortunata serie Brilliant Opera Collection. A Hummel mancò il genio di Beethoven (di cui fu amico e contemporaneo), di Schubert (di cui può dirsi anticipatore in alcune composizioni, come il settiminio op.74) nonché di Mozart (di cui fu peraltro allievo) ma, non per questo, la sua musica merita l’oblio in cui è caduta, a cominciare proprio dalla Mathilde, che trova spazio anche nell’ambito del Mese Mozartiano di NSB (l’avevo detto che sarebbe stato un mese mozartiano sui generis).

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Il Compleanno di Tristano (e Isotta)

Il rapporto tra opera e cinema è strano. In quanto genere per sua natura (si canta anziché parlare) privo di realismo, il teatro lirico appare incompatibile, per tempi drammatici ed espressività, con il dinamismo richiesto dal mezzo cinematografico, a dispetto degli evidenti debiti con il melodramma che, soprattutto nei suoi primi anni di vita, il cinema ha contratto. Per aprire questa nuova categoria del blog, dedicata ai rapporti tra opera e cinema, non ho scelto una delle molte trasposizioni cinematografiche (alcune riuscite, altre meno) di opere liriche ma un film più particolare, scoperto per caso grazie allo spirito di iniziativa di un’amica che ha ben pensato di propormene la visione dopo essere stata costretta dal sottoscritto a un barbaro lungo pomeriggio di ascolti wagneriani.
Il Compleanno di Marco Filiberti (2009), difatti, è un film profondamente permeato dalla musica e, in parte, dall’estetica wagneriana e proprio per questo motivo il previsto contrappasso (il film è bello, ma la tematica è indubbiamente pesante e la visione lascia una discreta tensione addosso) ha portato alla scoperta di un prodotto interessante e persuasivo, peraltro in parte girato a Jesi con il contributo della Fondazione Pergolesi Spontini. Spulciando in rete ho trovato molte recensioni al film, molte assolutamente negative e, almeno secondo il modesto punto di vista di un melomane che non ha le competenze per essere anche un critico cinematografico, anche ingiuste, perché non mi pare che si sia tenuto conto dell’estrema importanza che Wagner (e il Wagner di Tristan und Isolde) ha nella gestione dell’atmosfera generale del film. Questi brevi note, quindi, non vogliono essere una recensione del film e non ne hanno la pretesa, ma semplicemente vogliono essere una riflessione “a margine” sui rapporti con Wagner che trovo assolutamente evidenti nella regia e nella sceneggiatura di Filiberti.

Attenzione SPOILER: continuando a leggere verrà svelata la trama del film

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Eliza, ou Le voyage aux glaciers du Mont St. Bernard di Cherubini

«Si direbbe che, alzandosi al di sopra del soggiorno degli uomini, ci si lascino tutti i sentimenti bassi e terrestri, e che, a mano a mano che ci si avvicina alle regioni eteree, l’anima sia toccata in parte dalla loro inalterabile purezza.» (J.J.Rousseau, Julie, ou la Nouvelle Héloīse)

Nel 1761 Jean-Jacques Rousseau ambientava il suo celebre romanzo epistolare Julie, ou la Nouvelle Héloīse in una “cittadina ai piedi delle Alpi”, utilizzando la loro enorme imponenza per suggerire quel desiderio di elevazione presente nell’animo del protagonista. Comincia da queste pagine un interesse via via più intenso per la catena montuosa, tale da culminare nella famosa spedizione realizzata da Jacques Balmat e Michel Gabriel Paccard che, nel pomeriggio dell’8 agosto 1786, raggiunsero per primi la vetta del Monte Bianco. Le Alpi erano stabilmente entrate nella storia delle arti come oggetto estetico (e non più solo come mostruosità naturali) tanto che il loro progressivo accostamento a trame che avevano come protagoniste fanciulle pure e innocenti (nell’800 c’è solo l’imbarazzo della scelta: Sonnambula, Linda di Chamounix…) ha portato il critico Emanuele Senici a riferirsi a queste opere come a quelle delle “vergini alpine”. La purezza dell’aria e la trasparenza del cielo, nonché ovviamente il senso di esaltazione e grandiosità dato dalla visione delle alte cime, erano un perfetto contraltare delle virtù (purezza e, soprattutto, castità) connesse alle protagoniste di questi lavori. Il legame sarà così potente che lascerà residui anche in alcuni tra i personaggi dell’opera del tardo Ottocento e del Novecento (Wally di Catalani o la Minnie della pucciniana Fanciulla del West).

Ma non è di questo che vorrei parlare: all’interno delle opere ambientate nella rarefatta aria montana ce n’è una, in particolare, decisamente affascinante e che, curiosamente, non ha ancora trovato la via di una ripresa moderna con rigorosi criteri filologici: Eliza, ou Le voyage aux glaciers du Mont St. Bernard di Luigi Cherubini, tra i più affascinanti lavori dell’autore di Médée.

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