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Stella di Napoli – Joyce DiDonato

Joyce DiDonato Stella di NapoliMi è successa una cosa abbastanza divertente al primo ascolto di Stella di Napoli, la recente fatica discografica di Joyce DiDonato edita dalla Warner Classics: la prima traccia (ascoltata su Youtube, prima dell’arrivo del cd, quindi senza il libretto sotto mano), “Ove t’aggiri o barbaro”, mi è sembrata una brillante pagina da una sconosciuta opera comica di Pacini. Cercando qualche informazione su Stella di Napoli mi sono accorto, non senza un po’ di stupore, trattarsi invece di un’opera seria. Basterebbe questo a riassumere le mie opinioni su questo disco, che attendevo con discreto interesse, non foss’altro che per la presenza di alcune arie da opere misconosciute del primo Ottocento italiano. La DiDonato è un’artista carismatica, una persona intelligente e una vera forza della natura, ma affronta queste pagine con una voce che, sostanzialmente, è quella di una cantante di mezzo carattere (e non di una primadonna tragica) senza nemmeno che l’accento riesca a compensare i limiti dello strumento naturale, cosa che ad esempio riusciva a una Beverly Sills. Ecco allora le motivazioni del misunderstanding sul “genere” della prima track del disco che, sia detto en passant, è solo la cabaletta di una più ampia scena solista che, trattandosi dell’opera che dà il titolo all’intero album, mi sarei aspettato almeno incisa per intero. Il problema è che non c’è un brano in tutto il disco in cui l’accento sia completamente adeguato: il grande finale di Saffo, altra opera paciniana, è privo di quella allure tragica che dovrebbe costituire il fulcro dell’ampia scena (che peraltro chiamava in causa anche le potenzialità dell’attrice, viste le accurate didascalie previste anche in partitura, e che quindi molto si aspetta dall’accento e dalle capacità interpretative dell’interprete di turno) e anche la scena finale di Zelmira, dopo un attacco di “Riedi il soglio” promettente, non mantiene lo stesso afflato nobile per l’intero brano.

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La Colbran della DiDonato

Che Joyce DiDonato sia una delle più autorevoli e importanti interpreti rossiniane dei nostri tempi è fuor di dubbio e, proprio per questo, l’uscita del suo recital Colbran, the Muse è stata accolta, due anni fa, con grande curiosità ed interesse da parte dell’intero mondo melomane. Dedicare un intero programma ad un’artista mitica nella storia del melodramma del XIX secolo è stato, da parte dell’energica e talentuosa cantante americana, un gesto di ammirevole coraggio, anche se, dopo l’ascolto, la reazione che ho avuto non è stata quell’entusiasmo che mi sarei aspettato di ritrovare dopo la sua strepitosa Adina pesarese del 2003 e dopo la splendida Cenerentola targata Naxos. Non che la DiDonato canti male, ci mancherebbe, ma l’impostazione monografica del recital appare curiosamente altalenante tra brani maggiormente riusciti e altri (in particolare le due grandi scene tratte dall’Armida) decisamente meno convincenti anche se, ahimé, ambiziosamente scelti per aprire e chiudere l’impegnativo programma del disco. Questa la tracklist:

  • Armida – D’amore al dolce impero
  • La donna del lago – O mattutini albori / Tanti affetti
  • Maometto II – Giusto ciel, in tal periglio
  • Elisabetta, regina d’Inghilterra – Quant’è grato all’alma mia
  • Semiramide – Bel raggio lusinghier
  • Otello – Ah! Dagli affanni… Assisa a pié d’un salice
  • Armida – Se al mio crudel tormento… È ver… gode quest’anima!

Joyce DiDonato, mezzosoprano
con Lawrence Brownlee
Orchestra e Coro dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia – Roma
Edoardo Müller
1 CD Virgin – 72’05”

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