Articoli con tag voci antiche

Grandioso!

Grandioso Box CoverGli anniversari passano ma, spesso, qualcosa lasciano, come è il caso di questo agile cofanetto di 7 cd edito dalla Deutsche Grammophon e significativamente intitolato Grandioso! Great VERDI Recordings from Caruso to PavarottiGrandioso è una delle più enigmatiche, ma anche delle più caratterizzanti, prescrizioni verdiane: Verdi la utilizza molto spesso, sempre in corrispondenza di momenti drammaturgicamente molto significativi, quindi il nome scelto per questo bel cofanetto non è affatto dato a caso. Grandioso! è anche il livello della maggior parte dei brani contenuti in questa raccolta che, in ordine alfabetico, copre la maggior parte delle opere verdiane con ascolti molto interessanti. Si segnalerà, quindi, la presenza di una splendente Grace Bumbry, alle prese sia con Eboli che con uno spettacolare “Tu che le vanità”; un Giuseppe Di Stefano come al solito assai peculiare come tecnica e emissione ma infinitamente migliore dei suoi numerosi e disgraziati imitatori; la sempre splendida Elvira di Joan Sutherland dal famoso recital del 1959 diretto da Nello Santi, e ancora l’Ernani di Carlo Bergonzi, il Duca di Luciano Pavarotti e tanti altri. Più interessanti di queste registrazioni celeberrime (che, beninteso, è sempre un piacere ascoltare) ho però trovato le prestazioni di artisti meno noti, come il tenore Petre Munteanu, che è un elegante Duca di Mantova, o la classe di Pierrette Alaire, che sigla un “Caro nome” da ricordare. Oltre alla Messa da Requiem integrale diretta da Ferenc Fricsay (splendida, manco a dirlo) il cofanetto è completato da un cd interamente dedicato alla tradizione del Verdi eseguito in tedesco. Qui sono contenute alcune delle esecuzioni più entusiasmanti: è esaltante ascoltare voci di vero basso come Kim Borg e Georg Hann (entrambi alle prese con la Profezia di Zaccaria) così come nessun “Balen” del Trovatore è in grado di reggere il paragone con la suprema eleganza dell’incisione di Heinrich Schlusnus, la cui esecuzione è un prodigio di raffinatezza e languore amoroso. Ma, per quanto splendido sia Schlusnus (la cui languidezza dipinge finalmente un Conte giovane e innamorato, assai più efficace di certi esperimenti moderni) il brano che da solo vale l’ascolto del cd è “Lodernde Flammen schlagen zum Himmel auf”, ovvero “Stride la vampa”, registrato da Karin Brazell nel 1929: non solo il rispetto dei trilli è scrupoloso in una maniera impensabile per gli artisti italiani contemporanei dell’epoca, ma viene creata un’atmosfera di delirante sospensione, come una macabra ninna nanna, che non è possibile paragonare a nessun’altra incisione. Soprattutto in questi cd appare evidente come oggi si sia perso quell’accento, al tempo stesso retorico e nobile, che costituisce il lievito segreto della musica verdiana; un accento sacrificato spesso sull’altare di una presunta “umanizzazione” dei personaggi e un accento che, invece, troviamo presente a pieno titolo in queste quasi otto ore di musica, testimonianza preziosa di un’epoca passata.

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Giulietta e Romeo di Nicola Vaccaj

Esistono casi della vita piuttosto strani, che possono rendere un’opera d’arte celeberrima e misconosciuta al tempo stesso. Un esempio è nel Giulietta e Romeo di Nicola Vaccaj, compositore di Tolentino (Macerata): ogni studente di canto conosce il nome di Vaccaj, in quanto autore di uno dei più apprezzati e celebrati metodi per l’addestramento della voce del XIX secolo, in uso ancora oggi; ogni appassionato belliniano conosce Vaccaj perché dal suo Giulietta e Romeo deriva il libretto (sempre a cura di Felice Romani) dei più celebri (e, onestamente, più riusciti) Capuleti ed i Montecchi di Bellini senza dimenticare che, secondo una pratica cara all’ego delle primedonne ottocentesche, il finale di questa dimenticata opera di Vaccaj veniva quasi sempre inserito nel corpo nell’opera belliniana, perché considerato più efficace, tanto che la Ricordi ufficializzò la pratica pubblicandolo in appendice allo spartito e alle parti dei Capuleti. Solo di recente, e con la nuova edizione critica dell’opera a cura di Claudio Toscani (Milano, Ricordi 2003) si è formalizzato il definitivo abbandono nella pratica teatrale di questa curiosa tradizione. Una tradizione curiosa perché, pur permettendo all’opera di continuare a essere conosciuta e consentendo al nome di Vaccaj di perpetuare la propria fama, di fatto seppellì nell’oblio tutta la musica che precedeva la cosiddetta “scena dei sepolcri”: dopo il debutto al Teatro alla Canobbiana di Milano, avvenuto il 31 ottobre 1825, l’opera aveva infatti conosciuto una relativa diffusione fino al debutto dei Capuleti (Teatro La Fenice di Venezia, 11 marzo 1830) per poi vivacchiare fino alla metà degli anni ’30, dopo un’ultimo allestimento milanese con il Romeo di Maria Malibran in un’edizione, peraltro, ampiamente rimaneggiata (Giulietta fu Sophie Schoberlechner). Solo la scena finale, quindi, sopravvisse, ma dopo nemmeno vent’anni dal debutto il resto dell’opera era già dimenticato. Curioso peraltro che l’ultimo Romeo ottocentesco (famosa interprete, anche se in non molte produzioni, dell’altra celebre opera di Nicola Antonio Zingarelli sul medesimo soggetto) sia stata proprio l’artista spagnola al cui nome è legato il capriccio della sostituzione del finale di Bellini con quello di Vaccaj (ma vedremo che non fu la Malibran la prima a imporre la sostituzione).

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acta est fabula – 5 – Jone, o L’ultimo giorno di Pompei di Errico Petrella

Parlare di atmosfere tardo ottocentesche già nel 1858 è, forse, un azzardo,  ma è in questa data che, con Jone, o L’ultimo giorno di Pompei, su libretto di Giovanni Peruzzini, il compositore palermitano Errico Petrella (1813 – 1877) introduce nel mondo dell’opera lirica una serie di topoi che diventeranno sempre più diffusi man mano che il XIX secolo si avvierà verso la conclusione: si parte dalla definizione quotidiana del mondo pagano come luogo di lussuria e di piaceri smodati (li potremmo già chiamare decadenti) così come si vede nella taverna che ci appare al I Atto, in cui gladiatori e giovani patrizi giocano e bevono ad “alba già inoltrata” e si prosegue con la vivace e popolaresca raffigurazione del mercato di Pompei alla sera, che anticipa tutte le scene “pittoresche” di cui sarà prodiga l’opera verista (anche nel testo: “Chi vuol pistacchi e datteri!… / aranci ne vuole!… / Garofani, viole, / rose, chi vuol comprar. / D’ogni gusto, d’ogni odor, / qui son frutta, qui son fior. / Murene di vivaio, / ostriche di scogliera! / Tarda si fa la sera… / presto,… chi vuol comprar. / N’ho di lago, n’ho di mar… / Chi il mio pesce vuol comprar!”). Il libretto di Peruzzini, a differenza della quasi omonima opera di Giovanni Pacini, è tratto dal romanzo The Last Days of Pompeii dello scrittore britannico Edward Bulwer-Lytton, da cui l’autore elimina la conversione al cristianesimo dei protagonisti dando invece spazio alla ricreazione un po’ macchiettistica della vita quotidiana dell’epoca: come nota lo studioso Luigi Baldacci “se il mondo dell’opera aveva fatto uso ed abuso di una romanità di stampo metastasiano incentrata sul dovere, l’onore, l’amore della patria e il culto degli dei, la Pompei del Peruzzini ci fa conoscere la ROMA-AMOR“; una “ROMA-AMOR” (aggiungo io) non priva di velleità archeologico-storiche mutuate da Bulwer-Lytton, come quando si fa un preciso riferimento al violento terremoto che interessò la Campania nel 63 d.C (precedente la disastrosa eruzione del 79 d.C che distrusse Pompei) facendo cantare al coro, nella stessa scena del mercato di cui sopra: “Come l’aria sa di zolfo!… / È presagio di sventura. / par che s’alzi là dal golfo / una nebbia scura, scura. / Da tre giorni, o molto, o poco, / il Vesuvio manda foco… / Sedici anni restò zitto… / che si desti è da temer.”

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Ermafrodite Armoniche di Marco Beghelli e Raffaele Talmelli

Visto che negli ultimi post ho accennato sia a Bellini, che intendeva affidare il ruolo di Ernani a un contralto “en travesti” (anche Verdi aveva, sia pur per poco, accarezzato questa idea), sia al sensazionale esperimento di Marietta Alboni che affrontò, a Londra, la parte baritonale di Don Carlo in Verdi, non poteva capitare meglio la segnalazione di questo splendido libro di Marco Beghelli e Raffaele Talmelli edito dalla Zecchini Editore. Ermafrodite Armoniche è molto più che un “semplice” testo sul contralto ottocentesco: è anche un libro che cerca di ricostruire pazientemente e con amore un’estetica e una voce che sentiamo perduti, probabilmente, per sempre. In quest’ottica sperimentale e di ricerca va anche visto il ricco cd di ascolti (che vanno dai primi del ‘900 ai giorni nostri), in cui non sono presenti intere arie ma singoli frammenti utili a esaltare passaggi particolari o curiosi utilizzi di registro, sempre pazientemente e scrupolosamente richiamati durante la lettura (da effetuarsi per questo a portata di stereo): “nel Cd sono stati raccolti soltanto frammenti delle arie indicate, limitandosi a quei passi capaci di evidenziare le caratteristiche vocali qui inseguite” premettono gli autori all’indice degli ascolti, preceduto da una serie di note preziosissime per accostarsi con il giusto bagaglio culturale alle registrazioni risalenti ai primi anni del ‘900 e effettuate con tecniche spesso precarie. Ascoltare simili testimonianze eccezionali significa farlo consapevolmente ed evitando la superficialità di giudizi simili a quello (celeberrimo) di Mario Bernardi (marito di Anna Moffo), che disse, a proposito degli artisti di inizio XX secolo, “Erano tutti stonati. Tutti.”: ovviamente gli acuti sono spesso fissi, specialmente nelle registrazioni più antiche, ma questo perché mancano le armoniche superiori della voce, dato che le frequenze alte erano, all’epoca, impossibili da registrare. Ma, al di là delle note in questione che dovrebbero essere imparate a memoria da ogni musicofilo, quello che più affascina nel volume di Beghelli e Talmelli è il viaggio all’interno di una voce e di un timbro perduti, ricercati quindi in un appassionante viaggio storico ed esecutivo che va dal mondo dei castrati settecenteschi alla contemporaneità.

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Gothic Tales – 3 – Maria de Rudenz di Gaetano Donizetti

Il pulp è un genere letterario che propone vicende dai contenuti forti, abbondanti di crimini violenti, efferatezze e situazioni macabre […].Il genere pulp nacque nei primi anni venti negli Stati Uniti con storie pubblicate a puntate su riviste (le cosiddette Pulp magazine) di 128 pagine dalle sfolgoranti copertine ma con le pagine interne stampate su carta non rifilata di polpa di legno (in inglese pulp), quindi di infima qualità. (Fonte: Wikipedia)

Forse non rispetta tutte le regole del pulp (che del resto non era ancora nato), ma la donizettiana Maria de Rudenz è indubbiamente una vicenda piena di contenuti forti e scelleratezze, oscillante tra fantasmi (presunti) e crimini (reali) per concludersi con la protagonista che, creduta erroneamente morta in almeno un paio di occasioni, muore definitivamente strappandosi le bende dalle ferite sanguinanti e gettandole a terra di fronte al suo assassino. Composta per il Teatro La Fenice di Venezia dove debuttò il 30 gennaio 1838, Maria de Rudenz non è solo l’ultima opera donizettiana rappresentata in Italia prima della fase francese del compositore di Bergamo, ma è anche uno dei titoli più violenti e convulsi dell’intera letteratura operistica, vera summa della celebre frase dell’autore “Voglio amore e amor violento”. Di amore violento, in quest’opera, ce n’è a bizzeffe: un amore (specialmente quello della protagonista) così totalizzante e dirompente da poter quasi giustificare azioni agghiaccianti ed estreme, in un soggetto la cui violenza venne fortemente stigmatizzata da gran parte dei critici dopo la prima. Maria de Rudenz, in realtà, è un’opera molto interessante e ricca di musica spesso splendida (del resto è un lavoro che appartiene alla piena maturità donizettiana), costruita secondo un interessante ed equilibrato senso delle proporzioni che, specialmente negli appassionanti duetti di II e III Atto, conduce a vertici notevoli.

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Malibraniana

L’unico recupero integrale di un articolo dal mio vecchio blog (Avanguardia Lirica), anche se in questo caso più che di recupero parlerei di una radicale riscrittura. Alle note preparate in occasione dell’uscita del recital Maria di Cecilia Bartoli per la Decca ho aggiunto anche qualche breve riflessione su due prodotti successivi, sempre editi dalla Decca, ovvero il dvd del concerto di Barcellona, nell’ambito del tour “Maria”, e l’incisione integrale di Sonnambula.

MariaCecilia Bartoli

Il cd

Questa non vuole essere una recensione dell’album Maria di Cecilia Bartoli, dedicato alla figura e alla leggenda di Maria Malibran e lanciato, nel 2007, dalla Decca con grande battage pubblicitario e una serie di meritevoli iniziative per approfondire l’arte e la vita della grande artista ottocentesca. Più che una recensione mi interessa, difatti, stendere qualche veloce nota circa i criteri filologici e storici, che ho trovato abbastanza discutibili, utilizzati nell’impaginazione del programma, nella scelta editoriale delle arie, alcune delle quali venivano incise per la prima volta proprio in questo cd, e nella stesura delle note del booklet.

Il titolo, mi si passi l’ossimoro, è furbescamente ingenuo, per un album pubblicato in concomitanza con il trentennale (2007) della morte della Callas: “Maria”. Ovvio che si tratti della Malibran, però, insomma, un po più di buon gusto non avrebbe guastato (così come non avrebbe guastato in alcune delle foto del booklet): ma in un disco non mi pare tanto interessante la grafica quanto il contenuto e, come spesso avviene nell’ultima Bartoli, è stato proprio il contenuto, ricco di arie sconosciute e in prima registrazione assoluta, a spingermi all’acquisto. Proprio per questo motivo (estremo interesse musicale della proposta) credo che una maggiore cura nella presentazione del materiale musicale oggetto dell’esecuzione sarebbe stata doverosa e auspicabile.

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