Archivio per la categoria Giovanni Pacini

Alessandro nell’Indie di Giovanni Pacini

Quando Giovanni Pacini compone Alessandro nell’Indie è il 1824 e l’opera rappresenta il suo debutto con una nuova composizione nella prestigiosa piazza napoletana, all’epoca metropoli tra le più attive e vivaci per quanto riguarda l’opera lirica. La musica di Pacini era ovviamente nota ai napoletani, che avevano ascoltato alcune delle sue precedenti composizioni sia al San Carlo che al Teatro del Fondo (sembra incredibile ma il nemmeno trentenne compositore, all’epoca, aveva composto più di venti opere, la maggior parte delle quali avevano debuttato a Milano, sia al Teatro Re che alla Scala) ma è con l’Alessandro nell’Indie che il compositore avrebbe fatto ascoltare per la prima volta una musica nuova sul palco che lo avrebbe visto, negli anni seguenti, trionfare prima con L’ultimo giorno di Pompei del 1825 e poi, tanto per citare solo un altro titolo, con la Saffo del 1840, a tutt’oggi l’opera paciniana più giustamente celebre. Alessandro nell’Indie fu un debutto molto sofferto e Pacini stesso ne parla con dovizia di particolari nelle sue Memorie: “Eccoci alla prima sera fatale! Il teatro era affollatissimo poiché trattavasi di dover giudicare un’opera nuova d’un giovane maestro. Rimasi meravigliato (almeno in quell’epoca) del contegno dell’udienza. Si poteva dire di essere veramente ad un teatro di corte. Principia lo spettacolo. Un silenzio perfetto regna durante l’intera esecuzione!… Niuno applauso agli artisti, e per conseguenza neppure al povero maestro. Alla fine dell’opera un mite zi… zi… zi… si ripete in quel vasto recinto. Lascio considerare al lettore lo stato mio! Aveva passato l’intera serata esposto alla berlina (poiché si usava tuttora che l’autore dovesse andare al cembalo altro non facendo che voltare i fogli al violoncello ed al contrabbasso), fra la speranza ed il timore, essendo stato prevenuto che il pubblico di S. Carlo non applaudiva mai alla prima udizione di una nuova musica, ed assicurato che anche il gigante pesarese aveva subito la stessa sorte co’ suoi capi d’opera, principiando dall’Elisabetta. Ma il zittire alla fine dello spettacolo mi spaventò!

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acta est fabula – 2 – L’ultimo giorno di Pompei di Giovanni Pacini

La riscoperta dei resti della città di Pompei (iniziata con i primi scavi del 1738) conobbe un relativo momento di vivacità dal 1808, quando la moglie di Gioacchino Murat, Carolina Bonaparte, incoraggiò e potenziò le operazioni di scavo delle città sepolte dall’eruzione vesuviana del 79 d.C. È in questo clima (da notare che anche i Borboni, sia pur in misura minore, contribuirono agli scavi di Pompei negli anni ’20 e ’30 del XIX secolo) che il Teatro San Carlo ospita, il 19 novembre 1825, il debutto de L’ultimo giorno di Pompei di Giovanni Pacini, interessante opera kolossal – catastrofica che, anche grazie alle maestose scenografie di Alessandro Sanquirico, stupì il pubblico napoletano cogliendo un deciso successo. Il gusto per lo spettacolare effetto scenico, mutuato in parte dall’opera francese, si univa a un’ambientazione neoclassica calata in un’atmosfera apocalittica (già dal titolo) nella cui incombente tragicità non è peregrino cogliere già un aspetto romantico: l’opera precede di nove anni il poi celeberrimo romanzo The Last Days of Pompeii dello scrittore britannico Edward Bulwer-Lytton, la cui trama sarà alla base di buona parte delle successive manifestazioni artistiche ispirate agli ultimi momenti di Pompei. Nell’opera di Pacini il gusto per il pittoresco e per la ricostruzione pompeiana (evidente nella cura delle didascalie del libretto di Andrea Leone Tottola) si unisce all’impianto dell’opera neoclassica mutuata dallo stile francese, creando un melodramma decisamente diverso dalle opere composte a inizio secolo; lo stacco rispetto a un capolavoro come l’Ecuba è radicale, dato che gli influssi rossiniani sono ingombranti e presenti, nonostante la presenza di una costruzione drammaturgica discretamente originale in alcune scene: il risultato è un’opera abbastanza vivace, un mélange di suggestioni e spunti culturali che, nella sua eterogeneità, non sembra privo di fascino ed efficacia.

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Il convitato di pietra di Giovanni Pacini

Elvio Giudici, nella recente riedizione del suo poderoso L’Opera in CD e Video, da un giudizio abbastanza impietoso su Giovanni Pacini:

Nel volgersi sempre e comunque al successo popolare, il suo camaleontico manierismo formale ne fece dapprima l’emulo del grande Neoclassicismo alla Cherubini e Spontini; poi fece il verso al Rossini napoletano […]; infine fu tra i primi a rendersi conto di quanto stesse succedendo e sopratutto stesse preparandosi a Parigi col successo decretato a Meyerbeer […]. Il tutto, lui lo semplificava all’osso e quindi lo rendeva accessibile anche nella nostra provincia tramite una melodia facile facile, sempre in bilico sui crinali strettissimi posti a separare involo trascinante dal tricchetracche; tramite un ampio declamato tragico di retorica la più vieta e bombastica; e tramite, infine, un’architettura complessiva che in apparenza persegue la grande forma ma che in realtà allinea una dopo l’altra alcune “situazioni” archetipe, nelle quali la drammaturgia si frantuma in una serie di microdrammi ciascuno in sé concluso. Un Vanzina della musica, insomma, il Pacini Giovanni detto “maestro delle cabalette”.

C’è indubbiamente del vero in queste affermazioni: Pacini fu un compositore non sempre originale e che appare, oggi, sicuramente invecchiato, ma nonostante tutto qualche gemma, all’interno del suo monumentale catalogo, non manca di suscitare ammirazione, come è il caso del Convitato di Pietra, una deliziosa e originale operina da camera (con brani musicali alternati a dialoghi parlati) che, vista l’ispirazione tratta dal mozartiano Don Giovanni, ci sta bene all’interno di questo “mese mozartiano” (che prosegue un po’ a singhiozzo) di Non solo Belcanto.

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Rosa dei Venti – 2 – Il Corsaro di Giovanni Pacini (e Lord Byron)

Una serie di opere unite da un comune denominatore: la presenza del mare, come via di fuga, ma anche come espressione dell’anelito all’infinito che è tratto caratterizzante di buona parte della poetica romantica. Eroi maledetti, pirati e corsari ma anche terre lontane ed esotiche sono al centro delle quattro opere di cui si compone il ciclo Rosa dei Venti. Clicca sul banner qui sopra o nella colonna per leggere tutti gli articoli del ciclo.

Negli anni che andarono dalla fine del XVIII secolo all’inizio del XIX si diffuse, in tutta Europa, un movimento filoellenista che, partendo da basi culturali (gli scritti artistici di Johann Joachim Winckelmann, ad esempio) assunse una forma sempre più chiara di simbolica rivendicazione politica: la Grecia, culla del sapere e della civiltà, doveva essere liberata dal giogo dell’Impero Ottomano e riacquisire una sua indipendenza, cosa che effettivamente avvenne nel 1832, quando la Convenzione di Londra riconobbe l’autonomia dello stato greco dopo una decennale Guerra d’Indipendenza durata dal 1821 al 1829 e vinta grazie al fondamentale aiuto economico e militare delle grandi potenze europee. Furono, quelli, anni di fervente filoellenismo, tanto nella produzione artistica che nella vita di intellettuali e scrittori, molti dei quali cercarono (e, in molti casi, trovarono) la morte proprio combattendo a fianco dei patrioti greci nella lotta di liberazione della loro terra. Il più famoso di loro è forse Lord Byron che, con il suo romanzo in distici decasillibi The Corsair (1814), aveva già fornito alla causa greca un importante contributo ideologico, narrando le vicende di un pirata in lotta contro la dominazione musulmana.

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