Archivio per aprile 2012

“Il giuramento” di Rossi e Mercadante di Ernesto Pulignano

Strano destino quello di Saverio Mercadante, compositore tra i più interessanti ma anche tra i più bistrattati nella moderna storia del recupero del repertorio ottocentesco italiano: autore intrigante ed erudito, tanto da essere spesso escluso dall’elenco dei “minori”, Mercadante non può nemmeno essere paragonato a Rossini, Bellini, Donizetti e Verdi (e considerato, quindi, “maggiore”). Mancano al compositore pugliese quell’immediatezza e quella riconoscibilità che sono caratteristiche salienti dei quattro artisti già citati e, benché si sia reso protagonista di una programmatica rivoluzione delle forme, Mercadante non arrivò a comporre opere in grado di entrare stabilmente in repertorio perché, a dispetto della raffinatezza della composizione, sostanzialmente mancava (e manca) alla sua musica la capacità di coinvolgere a fondo l’ascoltatore. Un musicista, in sintesi, che si ammira e si studia, ma che è un po’ più complicato amare: detto questo non è, tuttavia, affatto tempo perso indagare il suo repertorio e le sue composizioni che, benché spesso appaiano come fin troppo intellettuali e programmatiche nella rinunzia degli “effetti”, sono comunque scritte da un professionista che sapeva il fatto suo, sia per quanto riguarda la gestione delle voci che per ciò che concerne la cura dell’orchestrazione. Tra i pochissimi lavori di Mercadante rimasti abbastanza stabilmente in repertorio spicca Il giuramento (Teatro alla Scala di Milano, 11 marzo 1837), l’opera con cui secondo lo stesso autore iniziò la sua prevista riforma del teatro lirico: “variate le forme – Bando alle Gabalette triviali, esilio a’ crescendo. Tessitura corta: meno repliche – Qualche novità nelle cadenze – Curata la parte drammatica: l’orchestra ricca, senza coprire il canto – Tolti i lunghi assoli ne’ pezzi concertati, che obbligavano le altre parti ad essere fredde, a danno dell’azione – Poca gran cassa, e pochissima banda.” Questa rivoluzione stilistica è stata a volte mal compresa, cercando nella musica di Mercadante ciò che non poteva esserci: quando si parla di “forme variate” non si mette in discussione la struttura a numeri dell’opera italiana, ma i procedimenti con cui il pubblico riconosceva i numeri stessi, cercando una maggiore verità drammatica.

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Mi riprendo il “Va pensiero”

Questo è il “Va pensiero”. Le altre sono appropriazioni indebite. E lo pubblico oggi non a caso.

Orchestra e Coro del Teatro San Carlo di Napoli, Vittorio Gui [Napoli 20 dicembre 1949]

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Ciro in Babilonia di Gioachino Rossini

Un ulteriore e doveroso post quaresimale, a Pasqua passata, per un’altra opera oratoriale su soggetto biblico: Ciro in Babilonia, o sia la caduta di Baldassare di Gioachino Rossini. Doveroso perché l’opera in questione, la quinta di Gioachino Rossini, rappresentata al Teatro di Ferrara il 14 marzo 1812, inaugurerà questa estate la XXXIII edizione del Rossini Opera Festival di Pesaro, per la prima volta allestita nella cittadina marchigiana. Prima opera seria rappresentata da Rossini (il Demetrio e Polibio, che pure la precede nella composizione, venne allestito a Roma il il 18 maggio 1812, pochi mesi dopo il debutto del Ciro) è anche uno dei titoli più negletti e meno rappresentati nell’ampio catalogo del compositore: probabilmente questo disinteresse non è del tutto infondato, dato che nel suo rispettare le regole della distribuzione vocale più diffusa in Italia (eroe – contralto amoroso; eroina – soprano e antagonista – tenore baritonale) l’opera si rivela agli orecchi contemporanei meno stimolante e sperimentale dei lavori napoletani (la cui distribuzione con doppio tenore, però, creerà sempre dei problemi alla loro diffusione in teatri che non fossero il San Carlo) non possedendo nemmeno il fascino del Tancredi (che debutterà al Teatro La Fenice di Venezia il 6 febbraio 1813, meno di un anno dopo il Ciro) benché Stendhal definisca il Ciro come un’opera “piena di grazia”. Ascoltare Ciro in Babilonia non è, tuttavia, tempo perso: le pagine notevoli sono molteplici e anche la cura della strumentazione rivela come l’appena ventenne compositore avesse assimilato lo studio e gli insegnamenti del conservatorio bolognese che aveva frequentato.

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“C’era il signor Mozart a tenermi compagnia”

Una delle scene più emozionanti dal film The Shawshank Redemption (Le ali della libertà) di Frank Darabont con Tim Robbins e Morgan Freeman.

I have no idea to this day what those two Italian ladies were singing about. Truth is, I don’t wanna know. Some things are best left unsaid. I’d like to think they were singing about something so beautiful it can’t be expressed in words, and it makes your heart ache because of it. I tell you those voices soared, higher and farther than anybody in a grey place dares to dream. It was like some beautiful bird flapped into our drab little cage and made these walls dissolve away, and for the briefest of moments, every last man in Shawshank felt free.

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O mia patria di Giovanni Gavazzeni, Armando Torno e Carlo Vitali

L’Italia è un paese strano, che ha bisogno di continue iniezioni di memoria per ricordare quello che è stato il suo passato e quelle che sono state le sue origini. Le celebrazioni per i 150 anni dell’Unità d’Italia, avvenute lo scorso anno in un clima economico di estrema incertezza e in un clima politico sul quale tacere è bello, sono ritornate sul ferro sempre caldo del Risorgimento e, in particolare, sulla musica che accompagnò la progressiva unificazione territoriale e geografica della penisola: tra i contributi pubblicati cavalcando l’onda dell’evento ho trovato particolarmente interessante “O mia patria”, volume a otto mani edito dalla Baldini Castoldi Dalai. Scrivo otto mani perché la prefazione di Philip Gossett è molto più che una semplice introduzione all’argomento (la musica popolare nel Risorgimento) ma si configura come una interessantissima piccola storia dei canti ottocenteschi, da leggere magari tenendo nel lettore un cd come Fratelli d’Italia, che gli stessi canti raccoglie in una completa antologia. Il centro del volume è nella storia del melodramma risorgimentale presentata in maniera agile, ma completa, da Giovanni Gavazzeni: pur limitandosi ai quattro grandi autori del canone ottocentesco italiano, Gavazzeni si permette una trattazione a metà tra il saggio storico e la musicologia, non perdendo mai di vista l’obiettivo del libro, ovvero dimostrare che (sono parole sue) “è nel mondo dell’opera […] che gli italiani, nonostante le sforbiciate censorie, si conquistavano faticosamente uno spazio di discussione che altrove languiva“. Una tesi condivibilissima, che viene esposta con rigore e completezza in un viaggio tra i capolavori di Rossini, Bellini, Donizetti e, immancabilmente, Verdi. All’analisi di Gavazzeni segue un interessante percorso socio-economico (significativamente intitolato “Opera, affare di stato”) a cura di Carlo Vitali (che firma anche un agile prospetto sinottico finale), in cui trovano spazio rimandi alle abitudini musicali della famiglia Leopardi e interessanti considerazioni sulla censura del XIX secolo. Il volume si chiude con Armando Torno che, nel capitolo finale, affronta l’affascinante figura di Pietro Maroncelli, patriota musicista e, secondo Torno, “il meno provinciale dei patrioti in un’Italia che riuscì ad esserlo completamente” e nella cui vita senza produzione musicale “si incarna e riflette il dramma culturale di un’epoca tutta italiana”.

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Opera al Cinema

Segnalo a chiunque fosse nei pressi di Macerata il prossimo appuntamento con l’opera lirica trasmessa in HD al Cine Teatro Italia (via Gramsci n°25, Macerata).
Martedì 17 aprile, alle 20.30 è previsto Rigoletto di Giuseppe Verdi dalla Royal Opera House, Covent Garden di Londra.

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Messa di Gloria pasquale

Con Donizetti e il suo Miserere si era aperto il ciclo di opere quaresimali, con Donizetti e la sua Messa di Gloria lo chiudo, assieme i miei auguri per una Serena Pasqua. A onor del vero la Messa di Gloria non era destinata alla liturgia della Pasqua di Resurrezione, ma venne invece composta da Donizetti a Napoli su richiesta dell’Abate Fazzini in occasione di una festa cittadina, durante la quale (7 novembre 1837) venne eseguita. Ad ogni modo buon ascolto e

Buona Pasqua


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Quaresima – 4: Nabucco di Giuseppe Verdi

Quando Riccardo Muti, durante la scorsa Stagione Lirica del Teatro dell’Opera di Roma, eseguì a pochi mesi di distanza il rossiniano Moïse et Pharaon e il Nabucco di Giuseppe Verdi, rimarcando l’enorme importanza assunta nel compositore di Busseto dal modello rossiniano, nessuno trovò la scelta insensata: anche a un ascolto superficiale e svogliato le affinità tra le due partiture appaiono evidenti, tanto che si potrebbe considerare a buon ragione il Nabucco come estrema propaggine ottocentesca dello stile quaresimale, che con Donizetti e il suo diluvio universale, era terminato a Napoli nel 1830. A legare il Nabucco alla tradizione quaresimale sono moltissimi aspetti, a cominciare dal debutto primaverile, dato che la prima rappresentazione avvenne al Teatro alla Scala di Milano il 9 marzo 1842. Sono presenti nel Nabucco ampi scontri tra popoli (molto più ampi che nel Mosè in Egitto e nel Mosè “nuovo”, ovvero la versione tradotta del Moïse et Pharaon ed evidente modello per Verdi ben più che la versione napoletana dell’opera); una storia d’amore tra esponenti delle fazioni rivali (sul modello di Elcia/Anaide e Osiride/Amenofi) è raffigurata nel rapporto tra Ismaele e Fenena, benché il loro ruolo nell’economia del lavoro sia decisamente marginale; è fondamentale l’ispirazione biblica e profetica del soggetto (tanto che ogni atto del libretto di Temistocle Solera viene introdotto da una citazione sacra) e la parte di Zaccaria nel ruolo di carismatico capo-profeta appare evidentemente plasmata sul modello di Mosè; la presenza di spettacolari effetti scenici (la distruzione dell’idolo nella IV Parte) e il rispetto di alcuni codici strumentali fissi in alcuni momenti di preghiera completano il quadro. Come negli altri titoli quaresimali, infine, il soggetto biblico viene affrontato tramite la mediazione di altre fonti, che nel caso di Solera (nel cui libretto Assiri e Babilonesi vengono allegramente usati come sinonimi, in barba alla verità storica) consistono in alcuni balli e in Nabuchodonosor, dramma di Auguste Anicet-Bourgeois.

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Quaresima – 3: Il diluvio universale di Gaetano Donizetti

Poco più di dieci anni dopo il Mosè in Egitto la tradizione napoletana di opere quaresimale era agli sgoccioli: con Gaetano Donizetti e con il suo diluvio universale (Teatro San Carlo, 6 marzo 1830) terminò l’anomalia (che potremmo definire tipicamente italiana) che vedeva inserita in cartellone una normale stagione lirica mascherata da stagione di Quaresima con opere che, in teoria, affrontavano soggetti veterotestamentari adatti per la meditazione pasquale ma che, in realtà, obbedivano alle esigenze spettacolari e alla voglia di teatro che era presente nel pubblico dell’epoca. Riuscire a “dividere il genere di musica profano dal sacro” (parole dell’autore) era molto sentito da Gaetano Donizetti che, proprio con questo oratorio, cercava di ottenere quel successo e quell’affermazione nel genere serio di cui sentiva un forte bisogno, dato che i suoi trionfi fino a quel momento avevano riguardato quasi esclusivamente opere buffe o farse. Rispetto all’Atalia di Mayr Il diluvio universale guarda in maniera decisamente esplicita al modello fornito dal Mosè rossiniano, presentando una figura di profeta autorevole e carismatica (Noè) accanto a una trama privata e amorosa (in questo caso un vero e proprio triangolo tra lui, lei e l’altra, per l’occasione anche intrigante falsa amica della protagonista) e alla previsione di uno spettacolare effetto scenico con l’immagine finale dell’oratorio, secondo cui “mentre le acque cadono dai cieli, sgorgano dai monti, si sollevano dalla terra e le famiglie degli uomini rimangono tutte sommerse, si vede solamente l’arca che galleggia illesa”. Come nel Mosè in Egitto il soggetto è mediato dai testi biblici (in questo caso la Genesi) tramite una serie di tragedie e opere teatrali, tra cui Il diluvio universale dello stesso Francesco Ringhieri già autore dell’Osiride da cui Andrea Leone Tottola aveva tratto il libretto del Mosè in Egitto ma, in Donizetti, manca una reale contrapposizione di popoli tra i seguaci di Cadmo e quelli di Noè. Il coro, infatti, è sempre presentato nei panni degli abitanti della perversa città di Sennààr, ora Satrapi con le rispettive mogli, ora seguaci di Cadmo, ma anche Sacerdoti d’Europa, Cofti d’Africa e Bracmani dell’Atlantide; il “gruppo” di Noè è invece composto dai soli tre figli (Jafet, Sem e Cam) con le rispettive mogli (Tesbite, Asfene e Abra), il che permette a Donizetti la creazione, nelle tradizionali pagine a sfondo religioso – visionario, di suggestivi effetti intimisti in quella che può essere considerata come una delle sue più interessanti opere del periodo giovanile o, meglio, del periodo pre-Bolena.

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