Iron Lady

Difficile allestire un’opera che porta in scena personaggi storici realmente esistiti, ancor più difficile se si parla di un’opera composta nella prima metà dell’Ottocento che, quindi, è declinata secondo la scansione a numeri tanto cara al mondo melomane quanto ostica, per il bagaglio di problemi che reca con i da capo e ripetizioni, ai registi. Un piccolo miracolo riuscì a Christof Loy quando allestì nel 2004, per il Teatro di Monaco, il “suo” Roberto Devereux di Gaetano Donizetti con l’Elisabetta di Edita Gruberová. La simbiosi tra intenzioni del regista, carisma della primadonna e capacità di “cucire” uno spettacolo evidenziando le caratteristiche migliori di un’artista che, sebbene declinante, conservava ancora molte frecce al proprio arco diede luogo a una creazione artistica estremamente avvincente, prontamente fissata in dvd dalla Deutsche Grammophon e ancora oggi in repertorio alla Bayerische Staatsoper di  Monaco. Loy, servendosi del carisma peculiare della Gruberová, ha capito che di storico, nell’Elisabetta I dipinta da Donizetti e Cammarano c’era poco o niente (e fin qui nessuna novità) ma si è chiesto come poter rendere un’Elisabetta della nostra epoca: il risultato è un personaggio sospeso tra Bette David e Margaret Tatcher, una donna di potere sicura e autoritaria, ma anche grottesca e sola nelle sue smanie ormonali e amorose. La scelta di trasporre l’ambientazione in un presente inglese, con una regina – primo ministro tutto fare, serve quindi al meglio le ragioni di un’opera per cui il direttore Friedrich Haider (alla guida dei complessi monacensi nell’esecuzione fissata in dvd) ha usato addirittura l’aggettivo espressionista, chiamandola “l’Elektra del Belcanto”. Il tutto, ovviamente, non sarebbe stato possibile senza la presenza della Santa di Bratislava: primadonna assoluta, ma attrice non sempre all’altezza della suprema vocalista, la Gruberová, firma una delle sue più compiute realizzazioni scenico musicali, trasferendo i manierismi del suo canto (non sempre impeccabile) nella raffigurazione di una vera donna sull’orlo di una crisi di nervi, potente di fatto e fragile nell’intimo, il che (a ben vedere) è anche il segreto del capolavoro donizettiano.

Nessun tradimento delle intenzioni di autore e librettista, quindi, anche se la vicenda viene spostata in epoca contemporanea, e la mancanza dei sontuosi abiti storici che sempre si sono ammirati indosso alle più svariate primedonne viene ampiamente compensata dalla tensione narrativa di uno spettacolo di grande forza. Già la realizzazione scenica della Sinfonia, interamente e completamente calibrata sulla musica, è un piccolo capolavoro teatrale: siamo in una grande sala di riunioni, pulita poco prima dell’alba da addetti che cambiano l’acqua ai distributori, spazzano a terra e cambiano le riviste a disposizione dei politici; sia Roberto che, in seguito, Nottingham entrano in scena mentre scorre la Sinfonia e vengono presentati al pubblico assieme al clima intrigante e complottistico di un Parlamento che immaginiamo corrotto e pieno di piccoli e grandi giochi di forza interni. Sul ritorno trionfale del tema di “Bagnato il sen di lagrime” posto in chiusura del brano viene portata in scena istericamente dai galoppini la nuova edizione del giornale “The Sun” con l’eloquente titolo “Seducer return” accanto al sorridente faccione di Roberto Aronica (Roberto Devereux). L’evidente e ironico richiamo è anche alle frequenti prime pagine dedicate dalla stampa inglese agli scandali amorosi e al gossip sulla famiglia reale britannica.

Sara entra in scena leggendo la “storia di Rosmonda” in un tascabile da quattro soldi, probabilmente un Harmony, ma non ci sfugge che tutte le donne presenti la osservano molto attentamente per capire la sua reazione alla visione della prima pagina del “The Sun”; il clima è di minacciosa attesa e rende palpabile anche l’ansia del personaggio che, in effetti, se non si espone (“Io, no, son lieta appieno”) ne ha ben donde. L’intelligenza della scena unica è anche nel prevedere al proscenio la creazione di “salottini privati” che, accostando poltrone e tavolini, permettono di isolare dall’ampia sala istituzionale i solisti nei loro momenti topici, come è il caso di Sara e come, di lì a breve, sarà il caso di Elisabetta nella sublime “L’amor suo mi fé beata”. La Gruberová in questo contesto si permette un’entrata spettacolare: tailleur grigio (diventerà azzurro nel secondo atto), chioma bionada e laccata e, soprattutto, rapporto un po’ morboso con il figlio Giacomo che, nello spettacolo di Loy, diventa un personaggio vero e proprio, pesantemente invischiato con la corruzione di questo consiglio di stato che vediamo agire sul palcoscenico. Sappiamo che nella realtà storica Giacomo I, successore di Elizabeth I, non era ovviamente figlio di Elizabeth I, che non fu mai madre (Giacomo era invece l’unico figlio di Mary Stuart) ma visto che la rilettura di Loy prescinde dall’Inghilterra del ‘600 non è improbabile ipotizzare che nello spettacolo possa essere l’erede naturale della nostra Elisabetta – Tatcher. Quest’ultima è infastidita dalle continue richieste di giudizio circa Roberto ma, quando viene annunciata la presenza dell’uomo amato, ha una reazione che scatena ilarità e pietà in tutti i presenti: si trucca, cerca di rendersi bella, prende una pasticca calmante mentre Giacomo fruga nella sua borsa e i sette si naturali conclusivi della cabaletta “Ah, ritorna qual ti spero” diventano un attacco d’ansia di fronte alla prospettiva di rivedere Roberto. La visione registica è molto forte e compensa i limiti esecutivi di una Gruberová che vocalmente non regge il confronto con la se stessa dell’incisione ufficiale Nightingale e delle varie esecuzioni del titolo in questione, a cominciare dal sensazionale debutto a Barcellona del 1990.

Il ritratto del personaggio è perfetto e, quel che più conta, perfettamente calibrato sull’espressività e i manierismi della Gruberová, che in questo contesto concorrono alla creazione di una figura priva di ogni catarsi, tragica come potrebbe esserlo una moderna interpretazione della celebre vecchia signora di Pirandello. L’impressione viene rafforzata dall’incontro con Roberto che, entrando, evita accuratamente lo sguardo di Sara, e abbracciando le ginocchia di Elisabetta causa un lungo attimo di smarrimento nella regina. Da qui fino al cambio scena i vari numeri si intersecheranno registicamente l’un con l’altro in un efficace tentativo di creare profonda tensione teatrale: la perfetta costruzione dell’ambiente contemporaneo e l’ottima caratterizzazione del coro (impressionante fino alla cabaletta di Elisabetta) lasciano dunque spazio alle tese dinamiche dei singoli. Nottingham entra in scena sulle ultime note della cabaletta “Un lampo orribile” e osserva lo scontro tra la regina e il suo amico, mentre Roberto riceverà il biglietto di Sara (spiato dall’onnipresente e viscido Giacomo) prima della fine della cabaletta di Nottingham, uscendo di scena mentre l’amico sta ancora cantando e lasciandolo da solo a invocare la “Santa voce d’amistà”, con effetto straniante.

Per distinguere le due scene del palazzo di Nottingham dal resto dell’opera, ambientato a Corte, Loy e il suo scenografo Herbert Murauer hanno ricreato un’intelligente rivisitazione del concetto di scena corta e scena lunga dell’Ottocento: il duetto tra Roberto e Sara è isolato al proscenio da una parete di vetro che taglia il fondo della scena e evidenzia gli appartamenti di Nottingham nel teso confronto tra i due ex amanti, a cui si aggiunge un forte senso di minaccia, durante la cabaletta “Questo addio fatale, estremo”, dall’ingresso in scena (dietro la parete) del coro pronto ad aprire il II Atto, che sembra spiare i due amanti. Viene dipinta una corte corrotta, dove si spia e si viene spiati, e dove la ricerca di una felicità personale o, come nel caso di Nottingham, la fiducia in un ideale di amicizia, onestà e giustizia sono condannate sul nascere; il richiamo dello spettacolo è anche a un teatro intimista e borghese, da cui derivano i gesti quotidiani e moderni dei personaggi, che allontanano la distanza tra il pubblico di oggi e lo stile ottocentesco dell’opera. L’inizio del II Atto (eseguito senza soluzione di continuità col I) vede l’uscita di un nuovo numero di “The Sun” ad accompagnare il coro di servitori e attendenti del Parlamento che commenta la caduta di Roberto: il volto di Aronica in prima pagina non è più sorridente, stavolta, e il titolo, abbastanza eloquente, è “Off with his head”. La definizione di un’Elisabetta grottesca e incapace di tenere sotto controllo le sue pulsioni sessuali, così come i suoi sentimenti di rabbia e gelosia, prosegue nel duettino con Nottingham, in cui comincia a definirsi chiaramente il corto circuito emozionale della regina: scivola a terra, è isterica, perde qualunque dignità in una serie di furiosi scatti d’ira alternati a disperate implorazioni. La mancanza assoluta di catarsi e l’ambiguità morale di tutti i protagonisti di quest’opera cupa sono evidenziate molto bene nella creazione di questo personaggio molto poco regale, in cui ancora una volta i trucchi e i manierismi della Gruberová diventano strumenti utili per la definizione di un’Elisabetta più donna che regina, come del resto è nella partitura di Donizetti, e riletta come un personaggio moderno e contemporaneo, ovvero con lo stesso procedimento di Donizetti e Cammarano che, in fondo, avevano ricreato una “loro” Elisabetta perfettamente calata nella loro epoca.

Roberto entra in scena sorridendo in maniera strafottente: è il suo ruolo “pubblico” ad essere evidenziato, nella consapevolezza che sarà Sara (tramite l’anello che con noncuranza aveva appoggiato sul tavolo di casa sua nel confronto dell’Atto I) a poterlo salvare da false accuse. Quello che non aveva considerato, però, è la presenza della “cerulea ciarpa” (un foulard di discreto pessimo gusto) consegnata a Elisabetta dai suoi sgherri, svelando la quale la tensione e il vacillare delle sicurezze dell’ex amante della Regina acquistano un rilievo ben più palpabile che nelle regie tradizionali. L’isteria di Elisabetta, a stento trattenuta da Giacomo, proprompe nella stretta finale e l’ambientazione in abiti contemporanei a quelli del pubblico in sala rende accettabili e plausibili gli eccessi vocali e recitativi degli interpreti (e soprattutto della Gruberová) che, in un contesto classico, ci sarebbero parsi estremamente discutibili… in fondo il clima della politica degli ultimi anni ci ha abituato a simili scoppi di volgarità gratuita, che suonerebbero invece falsi in produzioni storicizzate (come del resto ci ha insegnato la recente storia esecutiva del titolo). La stretta di mano tra Giacomo e Cecil, evidenti complici nella congiura che mina la salute mentale della regina, suggella la chiusura dell’atto.

Il III Atto si apre negli appartamenti di Nottingham, con Sara che prepara la valigia (vuole forse fuggire?) ma è fermata da Nottingham: anche in questo caso Loy sceglie di intersecare le varie scene dell’atto, creando una forte tensione e lasciando i personaggi sempre in scena (Roberto escluso ovviamente) come spettatori del disastro creato dalle loro debolezze e ambiguità. Nottingham, l’uomo buono e idealista (che anche storicamente, ci informa Loy, fu uno dei pochi uomini di Elizabeth I a non avere una relazione con lei) lega e imbavaglia Sara (scena piuttosto discutibile, questa, a onor del vero) mentre dietro i vetri si assiste alla tortura di Roberto, barbaramente picchiato dai corrotti uomini del parlamento. Roberto, sanguinante e bendato (forse accecato), canta la sua aria osservato cinicamente da Giacomo, Nottingham e dall’intera sezione maschile del Parlamento, mentre l’esecuzione della cabaletta “Bagnato il sen di lagrime” è accompagnata dall’umiliazione dell uomo (che viene spogliato) e dal suo linciaggio da parte dei corrotti membri del parlamento, mentre Elisabetta (in lungo e tragico abito nero) entra in scena sulle battute finali dell’aria. In “Odo un suon per l’aria cieca” il “suon” che Roberto ode è quello del suo paggio picchiato selvaggiamente dagli uomini della corte, scena cui Giacomo tenta invano di opporsi, nella probabile consapevolezza di aver messo in moto un meccanismo decisamente più grande di lui, forse pentito o forse sconvolto dalla violenza cui assiste stupito (ma viene comunque fermato, nel suo patetico tentativo di difesa, da un Cecil più determinato che mai). Davanti a Nottingham, Giacomo e Cecil (che resteranno in scena – assieme a Sara legata e imbavagliata al proscenio alla sinistra degli spettatori – fino al termine) Roberto viene brutalmente condotto via dal coro.

I quindici minuti finali dell’opera sono tra le più alte creazioni musicali di Donizetti e, in generale, tra i momenti più sublimi dell’intera storia della musica italiana. Finalmente il pubblico vede la corona di Elisabetta, ma è una corona esposta in una teca, che Elisabetta – Gruberová afferra mormorando la celebre frase “Ah, non sia chi dica in terra / la Regina d’Inghilterra ho veduto lagrimar”: il contrasto che si crea tra questa frase e l’evidente negazione della realtà di una donna che ha rinunciato a qualunque dignità, anche nel suo ruolo pubblico (e non solo negli atti precedenti, ma anche poco prima, soprattutto al momento di pensare a Roberto “pentito alla presenza mia”) aggiunge pathos drammatico alla definizione di questo personaggio isterico e straniante, davvero un’Elektra del Belcanto. Giacomo, che aveva osservato con interesse la corona durante il recitativo della madre, libera Sara al termine del “Vivi ingrato” e consente di tramutare la cabaletta finale in una vera scena di pazzia. Recuperando la storicità della lopecia da cui era affetta Elisabetta, nonché accontentando la Gruberová che fin dal suo debutto ha sempre compiuto il gesto in questione cantando il finale di Roberto Devereux, Loy imposta l’esecuzione di “Quel sangue versato” come preparazione al momento topico in cui la donna si strappa l’elegante parrucca bionda rivelando (tra l’orrore dei presenti, compreso Giacomo) un’orribile canizie. Anche i manierismi di una Gruberová qui più che mai prodiga di discutibili portamenti, note fisse, affondi afoni nel grave, diventano espressioni essenziali alla chiosa di questo personaggio nero e privo di speranza. Grottesco è l’aggettivo che penso di aver usato più volte in questo post, ma è un grottesco voluto e scientemente ricercato, suggellato dagli ultimi passi claudicanti che la regina compie ridendo prima di accasciarsi a terra, mentre le luci si spengono sullo sguardo trionfante di Giacomo.

Lo spettacolo di Loy è, dunque, al tempo stesso un eccellente esempio di intelligente rilettura contemporanea di una delle più coinvolgenti partiture donizettiane e una splendida operazione di allestimento calibrato alla perfezione e al millimetro sulle possibilità vocali della sua primadonna. Edita Gruberová ha consacrato l’ultima parte della sua carriera all’esplorazione delle possibilità della propria voce applicate a un repertorio (la grande opera seria belliniana e soprattutto donizettiana) per il quale non era del tutto adatta. La presenza di manierisimi via via più evidenti (nella coloratura, nell’emissione, nella gestione degli sbalzi dal grave all’acuto) può risultare a volte eccessiva e straniante al solo ascolto: vedendola in questo allestimento creato sulla sua personalità di cantante e di interprete (mai stata attrice esaltante, la Gruberová, ma qui è da Oscar per come riesce a ricreare la “sua” Elisabetta I) si resta stupiti da come i difetti siano riassorbiti nella gestione “espressionista” di un belcanto eroso e emozionante, peraltro in evidente e voluto contrasto (che diventa contrasto espressivo) con la solarità d’espansione vocale e con il timbro molto bello di Roberto Aronica, che qui firma una delle sue prove migliori. Certo, è un miracolo difficilmente ripetibile per altre opere, ma resta comunque uno spettacolo da conoscere, in cui non si “aiuta” Donizetti a parlare al pubblico contemporaneo (anche gli allestimenti in costume, se è per questo, parlano al pubblico contemporaneo, se ben fatti) ma si aiuta una primadonna a trovare l’esatta cifra espressiva utile a consegnare alla storia dell’interpretazione un ritratto di Elisabetta I molto personale, coinvolgente e particolare. Non tutto è perfetto, nello spettacolo di Loy: ho già detto che trovo discutibile la scelta di legare e imbavagliare Sara al III Atto così come non mancano i soliti contrasti tra i termini del libretto (“spada”, ad esempio) e l’ambientazione contemporanea… ritengo però che i pregi espressivi dell’allestimento sopravanzino di gran lunga i difetti.

Ci tengo a specificare che non sono assolutamente un fan di Edita Gruberová, cantante che certamente ammiro e apprezzo, ma di cui non sempre sopporto proprio quei manierismi di cui ho ampiamente parlato nel post: questo spettacolo e questo dvd, però, sono davvero da conoscere.

Photos by Wilfried Hösl for Bavarian State Opera (© Wilfried Hösl) e screenshot del dvd reperiti in rete

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  1. #1 di icittadiniprimaditutto il 13 ottobre 2012 - 11:56

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