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Una borghese piccola piccola

Era un evento atteso da tutti e non solo dai fan: il debutto in Norma di Edita Gruberová, avvenuto nell’ultima fase della sua carriera, non ha mancato di suscitare polemiche (anche feroci) assieme a entusiasmi deliranti e alla pronta testimonianza discografica, prima in cd per la Nightingale e poi in video per la Deutsche Grammophon, che ha registrato le recite del debutto scenico dell’artista (gennaio 2006) avvenuto a Monaco nell’allestimento di Jürgen Rose. A ben vedere la voce di Edita Gruberová, chiara e da soprano leggero, è lontana dalle esigenze di un ruolo composto sulle qualità della mitica Giuditta Pasta, che nasceva contralto e che sicuramente avrà fatto vibrare con ben altri brividi le torbide discese in zona grave di brani come “In mia man alfin tu sei”; inoltre manca alla Gruberová (ed è inevitabile considerando la scarsità di peso specifico) quell’accento aulico e coturnato, neoclassico in una parola, che è comunque necessario e richiesto in buona parte della pagine di un’opera così mitica. Norma, tuttavia e per fortuna, è anche altro e molto di più: suggestioni classiche e celtiche (ne avevo accennato anche in questo post) si mescolano all’evidenza di un amore nato all’interno di uno scontro di culture e di popoli che non può certo finire bene, senza dimenticare l’elemento borghese della scappatella del tenore con una ragazza più fresca e piacente della “moglie”, un tema comunque al centro del Finale I “privato” nello scontro e nella definizione dei drammi dei tre protagonisti che, secondo la leggenda, alla prima destò scandalo per l’assenza del coro impegnato in una grande e composita scena di massa “comme il faut”. La Norma di Edita Gruberová sviluppa in maniera particolare proprio l’aspetto umano e privato del personaggio che, a ben vedere, si ispira al mito di Medea ma, a differenza della fosca maga della Colchide, non riesce a uccidere nessuno per la sua vendetta: non i figli, non Pollione, non Adalgisa e l’unica via d’uscita che le rimane sarà, alla fine, uccidere se stessa.

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Iron Lady

Difficile allestire un’opera che porta in scena personaggi storici realmente esistiti, ancor più difficile se si parla di un’opera composta nella prima metà dell’Ottocento che, quindi, è declinata secondo la scansione a numeri tanto cara al mondo melomane quanto ostica, per il bagaglio di problemi che reca con i da capo e ripetizioni, ai registi. Un piccolo miracolo riuscì a Christof Loy quando allestì nel 2004, per il Teatro di Monaco, il “suo” Roberto Devereux di Gaetano Donizetti con l’Elisabetta di Edita Gruberová. La simbiosi tra intenzioni del regista, carisma della primadonna e capacità di “cucire” uno spettacolo evidenziando le caratteristiche migliori di un’artista che, sebbene declinante, conservava ancora molte frecce al proprio arco diede luogo a una creazione artistica estremamente avvincente, prontamente fissata in dvd dalla Deutsche Grammophon e ancora oggi in repertorio alla Bayerische Staatsoper di  Monaco. Loy, servendosi del carisma peculiare della Gruberová, ha capito che di storico, nell’Elisabetta I dipinta da Donizetti e Cammarano c’era poco o niente (e fin qui nessuna novità) ma si è chiesto come poter rendere un’Elisabetta della nostra epoca: il risultato è un personaggio sospeso tra Bette David e Margaret Tatcher, una donna di potere sicura e autoritaria, ma anche grottesca e sola nelle sue smanie ormonali e amorose. La scelta di trasporre l’ambientazione in un presente inglese, con una regina – primo ministro tutto fare, serve quindi al meglio le ragioni di un’opera per cui il direttore Friedrich Haider (alla guida dei complessi monacensi nell’esecuzione fissata in dvd) ha usato addirittura l’aggettivo espressionista, chiamandola “l’Elektra del Belcanto”. Il tutto, ovviamente, non sarebbe stato possibile senza la presenza della Santa di Bratislava: primadonna assoluta, ma attrice non sempre all’altezza della suprema vocalista, la Gruberová, firma una delle sue più compiute realizzazioni scenico musicali, trasferendo i manierismi del suo canto (non sempre impeccabile) nella raffigurazione di una vera donna sull’orlo di una crisi di nervi, potente di fatto e fragile nell’intimo, il che (a ben vedere) è anche il segreto del capolavoro donizettiano.

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